Domani interrogo (Marsilio 2022, pp. 226, € 17) di Gaja Cenciarelli non è, come ci si potrebbe aspettare dalla buffa copertina e dai richiami della quarta verso McCourt e Starnone, un romanzo umoristico sulla scuola. È invece un romanzo autobiografico, drammatico, di costume, di critica sociale che – forse non volendo – illustra la crisi del sistema educativo italiano di oggi. Si parte dalla frequente inadeguatezza di molti docenti e si finisce con la farsa dell’esame di Maturità, qui rappresentato negli ultimi capitoli del libro utilizzando un realismo impressionante che lascia attoniti e senza alcuna speranza.
La lezione del capolavoro di Eric Auerbach, Mimesis, sembra qui ben intesa dall’autrice che infatti alterna nelle sue pagine il serio, la mescolanza di registri, di stili, di argomenti, di personaggi. Evita censure riguardo ai suoi argomenti. Inserisce vicende fittizie dei personaggi in una storia verosimile e offre una dotta e credibile rappresentazione della vita quotidiana in un istituto tecnico della periferia romana.
Domani interrogo racconta dunque l’incrocio di diverse solitudini: quelle degli studenti più o meno disadattati e quella della loro nuova prof d’inglese, che non ha un nome ma solo la sincope del suo ruolo professionale: lei è la “pressoré”, romanesco per “professoressa”.
Gli studenti girano a vuoto e sono, tutti, una monade che comunica solo al suo interno. Non parlano italiano ma un idioletto di quartiere, un romanesco gergale comprensibile in una zona limitata di Roma Rebibbia. Sono un’isola, ma un’isola piccola, in un mare che di loro nemmeno si accorge.
La “pressoré” – e temo che qui il grado di autobiografia abbia esondato – ha verso i suoi personaggi-studenti una ossessione: vuole “salvarli”. Il concetto riporta in automatico a I sommersi e i salvati, dove la figura era usata per ben altre profondità di significato e ambientazione. Cenciarelli descrive l’eventuale bocciatura a scuola al pari di una “non salvezza”, addirittura una sorte di “morte” (l’espressione “Chi sono i morti?” è ripetuta più volte come un mantra all’interno del romanzo, fino a essere il sottotitolo dell’epilogo) e questo l’ho trovato osceno perché contribuisce a quella storta idea per cui anche la scuola secondaria superiore debba essere una specie di kindergarten per adulti e adolescenti da trattare come minorati. Una scuola che non debba in nessun caso mai costituire una prova vera, un ostacolo.
Una scuola ontologicamente non richiedente, che promuova tutti a prescindere dall’impegno. La miglior ricetta per portare i giovani in una bolla che, finita la farsa della maturità, poi scoppia, lasciandoli nudi e impreparati dinanzi al mondo reale, assai meno ovattato.
Gli studenti di Domani interrogo sono nati in quella terra di nessuno ai bordi della periferia romana dove “si spigne”, si spaccia, e lo si fa sia per noia che per dipendenza. Sono figure fragilissime: persi in una emarginazione abulica fatta di ignoranza, mancanza di amor proprio e fiducia in se stessi, violenza e cinismo. Sono emarginati senza alcuna possibilità di emancipazione, anche perché la scuola, che frequentano saltuariamente, non ci prova nemmeno a emanciparli. Ma gli studenti, ancorché presenti in ogni pagina, sono comunque contorno: la protagonista è lei, la “pressoré”, altrettanto perduta alla ricerca del suo senso filosofico e umano.
La prof descritta da Cenciarelli è una donna sola, senza più famiglia d’origine ma anche senza una donna o un uomo che le sia partner di vita: “Il fatto è che l’amore e le ossessioni hanno ben poco a che vedere con l’intelligenza, pensa la professoressa, altrimenti lei non avrebbe collezionato perlopiù amanti pavidi, cretini e superbi: ma questo non può dirglielo.” (155) Una donna di mezza età senza figli, senza amanti, senza rapporti amicali con le altre colleghe di scuola, qui quasi del tutto assenti oppure presentate in modo acido e antagonistico nei capitoli sull’esame di Maturità.
Una donna così sola non ha scelte: non può far altro che mimetizzarsi fra i suoi studenti. Ecco che la “pressoré” ne assume il gergo, il linguaggio, l’intensità, l’emotività adolescenziale, il punto di vista, perfino gli amori, i social, le parolacce, i tic. Una insegnante che abdica in toto al proprio ruolo e, credendo di fare del bene, si immerge nella dimensione dei suoi studenti, rinunciando a fare da guida al loro fianco. Tutt’al più è una “pressoré” complice, che fuma e beve con i suoi studenti durante l’anno scolastico e quando proprio vuole darsi un contegno gli dice: “È ricreazione, scendiamo dieci minuti, ma mi devi giurare che NON TI ACCENDI UNA CANNA MENTRE STAI CON ME.” (maiuscolo nell’originale, 178) con buona pace dei doveri deontologici di una insegnante statale all’interno della sua comunità educante. L’autrice non descrive il look della “pressoré” ma il lettore se la immagina travestita da finta giovane, coi jeans strappati e in canottiera senza maniche, al pari della mise da maturità di Sofia, una delle sue studentesse.
Nell’annullamento di ogni distanza fra lei e i suoi allievi, la “pressoré” rinuncia dunque a porsi come punto di riferimento adulto, che è il passaggio necessario per essere percepita dai propri studenti come autorevole senza diventare autoritaria. E infatti loro la considerano un’amica, diversa dagli altri insegnanti. Cenciarelli fa dir loro che si vede che la “pressoré” gli “vuol bene” e questa sarebbe la prova che la prof è differente dalle altre prof (!). Così cadono tutte le barriere deontologiche: la prof dà il proprio numero di telefonino ai ragazzi, chatta con loro su Whatsapp, addirittura li accoglie nel suo appartamento quando questi le vanno a citofonare sotto casa per ripassare in vista dell’esame.
Qui sta il valore letterario del romanzo: Cenciarelli in questa scuola di periferia romana, in queste lezioni d’inglese influenzate dalla passione genuina ma ingenua della “pressoré”, mette in cattedra un personaggio che ricorda da vicino l’inetto principe Myskin di Dostoevskij, specie nel passaggio “Io non è che insegnassi loro, no, per questo c’era il maestro di scuola Jules Thibault; io forse insegnavo anche, ma soprattutto stavo con loro, e i miei quattro anni trascorsero tutti così. Non avevo bisogno di nient’altro. Dicevo loro tutto, senza nascondere nulla. I loro padri e parenti se la presero con me perché i bambini, alla fine, non riuscivano a fare a meno di me, e il maestro di scuola finì per diventare il mio nemico numero uno.” (L’Idiota, Garzanti, 2008, p. 78).
L’autrice dunque tratteggia una docente postadolescente solo molto più vecchia, avulsa dalla sua età e dal suo ruolo. Una “pressoré” del tutto inadeguata sotto un profilo pedagogico e didattico, impacciata nel mondo degli adulti e capace di trovare corrispondenza solo con i suoi studenti “da salvare”. Ne vien fuori un microcosmo tragico ma letterariamente valido, uno scuolabus dove tutti cantano felici, lanciato a tutta velocità in autostrada. Senza autista.
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