Il tempismo della pubblicazione degli interrogatori dell’Avvocato Piero Amara sulla fantomatica «Loggia Ungheria», assieme al loro contenuto, avrebbe fatto sghignazzare Francesco Cossiga. Che oltre un decennio fa definì pubblicamente l’Associazione Nazionale Magistrati come «associazione sovversiva e di stampo mafioso». Ed era un Presidente della Repubblica emerito a sostenerlo. Non lo scemo del villaggio in osteria.
Ma le sue parole rimasero senza grandi eco sulla stampa. Liquidate col sorriso compassionevole da molti pennivendoli, ma anche dalle istituzioni. Verso le picconate di un signore che si ricordava essere un po’ avanti negli anni. Facendo pensare al trattamento che alcuni vorrebbero riservare oggi a Silvio Berlusconi, dopo averlo sottoposto a perizia psichiatrica. Come nei sistemi totalitari. Dove i dissidenti vengono destinati al manicomio, in alternativa al gulag.
Tutti colpevoli, tutti collusi: arrestiamoci tutti
Dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, ormai, tranne qualche seguace di grilli travaglianti, che l’Italia vive da oltre tre decenni sotto una dittatura mediatico-giudiziaria. Ed il momento finale dell’«arrestiamoci tutti» sembra ormai arrivato. Come anticipato oltre due lustri fa proprio da Francesco Cossiga. Nella sua grande esperienza e lungimiranza.
Trasformando quella che dovrebbe essere una tragedia in una farsa di Pulcinellopoli.
Perché il mantra «tutti sono corrotti» e «tutti sono mafiosi», ripetuto dai seguaci della teoria del tutti «colpevoli su cui non sono state raccolte le prove», aggiunge al danno la beffa. Quella cioè che, in fin dei conti, significa che nessuno è corrotto e nessuno è colpevole. E la festa può concludersi con i consueti tarallucci e vino. Accompagnati dagli ululati alla luna dei cantori di professione dell’Italia dei mille misteri insoluti. Frutti di una malagiustizia che sembra ormai fare acqua da tutte le parti.
Anche Zafarana, Toschi e Del Sette nella «Loggia Ungheria»?
Dopo mesi di silenzio, rotto da qualche sussurro stampa, sulla fantomatica «loggia Ungheria», ecco tutt’a un tratto, tra gli stracci che volano attorno al conflitto tra il Procuratore della Repubblica di Milano (a pochi giorni dalla pensione) ed un ex membro del Consiglio Superiore della Repubblica (che in pensione non voleva andarsene), le rivelazione di tanti nomi eccellenti di questa loggia segreta. Ed il ruolo dei vasi di coccio di questo scontro tra titani viene ricoperto persino dai vertici, presente e passati, di due tra le migliori forze di polizia d’Europa. E forse del mondo. Carabinieri e Guardia di Finanza.
Tra i diversi membri di questa presunta associazione segreta, che comprenderebbe persino pezzi importanti del Vaticano, vi sarebbero infatti persino l’attuale Comandante Generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana, assieme al precedente, Giorgio Toschi. Ed anche ad un vecchio Comandante Generale dei Carabinieri, Tullio Del Sette.
Ora, di fronte a questa ennesima rivelazione della Pulcinellopoli dei misteri che restano sempre insoluti, mi sento di fare un paio di considerazioni.
La prima è sicuramente viziata dalla conoscenza e stima personale che nutro verso i Generali Zafarana e Toschi. Che benissimo hanno fatto a reagire immediatamente, annunciando una querela per calunnia nei confronti, non dei giornali che hanno riportato la notizia, ma di chi li avrebbe indicati come membri di un’associazione segreta. Che se esistesse davvero come descritta dalla stampa, sarebbe una vera e propria associazione a delinquere.
I generali Zafarana e Toschi sono cresciuti in anni post scandalo dei petroli e P2. Anni nei quali le generazioni di ufficiali della Guardia di Finanza alla quale appartengono come me, sono cresciute nella più viscerale diffidenza per ogni forma di associazionismo segreto. Chi scrive, in forza di quella forma mentis, ha aspettato di congedarsi prima di aderire persino ad un semplice Rotary Club.
Vedo quindi come ridicola e davvero fantasiosa l’idea che i due comandanti generali delle Fiamme Gialle potessero stringere mani, con contestuale tripla pressione dell’indice, e chiedere all’interlocutore se fosse mai stato in Ungheria. Secondo le modalità di riconoscimento dei sodali raccontate dall’avvocato Amara.
E anche se non fossi condizionato dalla dichiarata stima personale, che potrebbe rendermi poco oggettivo, non potrei credere che ufficiali che hanno superato durissime selezioni per raggiungere i vertici delle Fiamme Gialle possano essere così ingenui dall’aver creduto di poterla fare franca, e restare indenni a tale supposta enormità.
La sudditanza delle forze di polizia alle procure
La seconda considerazione è che, come raccontato da Palamara a Sallusti, nell’Italia della magistrocrazia mediatica degli ultimi trent’anni, «un Procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentando magari l’abitazione…, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Soprattutto perché fanno parte di un “Sistema” che li ha messi lì e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli ».
E questa situazione, che non fa certamente parte della fantasia di Palamara, ha fatto sì che per oltre tre decenni ci sia stata una evidente accondiscendenza, se non vera e propria sudditanza, della polizia giudiziaria alla magistratura requirente. Che non si é limitata alla sola dipendenza funzionale, di polizia giudiziaria, appunto. Ma che ha pervaso gli stessi vertici, locali e centrali, di tutte le forze di polizia : Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Forze di polizia per le quali quella della polizia giudiziaria non é la sola funzione e competenza. Che peraltro non appartiene ai generali ed ai dirigenti superiori. I quali non rivestono la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria. E quindi non hanno più la dipendenza funzionale (per la funzione di polizia giudiziaria) dall’Autorità giudiziaria. Cioè dalla magistratura requirente.
Ma nella realtà, da oltre tre decenni, le fila delle carriere e quindi della guida delle tre forze di polizia sono state indirettamente tirate dalla magistratura. E soprattutto dalle più importanti procure della Repubblica, oltre alla procura nazionale antimafia e antiterrorismo.
I dirigenti delle tre forze di polizia, a tutti i livelli, sono sempre stati molto più sensibili alle sollecitazioni delle procure di quanto possano esserlo dalle richieste di qualunque altra autorità statuale. Sia essa il prefetto o lo stesso ministro dell’Interno, della Difesa o dell’Economia.
E questo non solo perché nell’Italia giustizialista dei corvi e dei veleni, l’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria può rovinare in un attimo splendide carriere con una semplice lettera anonima, se non con qualche cosiddetto «pentito». Ed il cannibalismo mediatico- giudiziario, dei quali sembrano essere oggi vittime, dopo Palamara, gli stessi Procuratori della Repubblica di Milano, Roma, ed ex membri del CSM e dell’ANM, è un cannibalismo che, sempre a mezzo giudiziario requirente, è noto da decenni alle tre forze di polizia. Portando ad una naturale, e solo in parte comprensibile, accondiscendenza dei dirigenti verso una semplice alzata di sopracciglio del PM dell’angolo. Dal quale potrebbero sempre nascere censure o avvisi di garanzia che, anche se poi caduti nel nulla dopo anni di patimenti, lasciano comunque il segno nelle carriere e nelle assegnazioni degli ufficiali e funzionari delle tre forze di polizia.
Ed anche questa è una situazione che non trova riscontro, a tale livello di eccesso, in nessun altro Paese Europeo. Nei quali nessun ufficio del pubblico ministero dispone, senza alcuna limitazione di fatto, in termini di mezzi e disponibilità, di una smisurata armata di forze di polizia a sua pressoché completa disposizione. Alla quale, per non farsi mancare nulla, si aggiungono da qualche tempo le polizie locali, la Guardia Costiera e l’Agenzia Dogane Monopoli.
Bastone e carota delle procure, tra avvisi di garanzie ed encomi
Oltre al timore di qualche avviso di garanzia che, anche quando pretestuoso o fumoso, lascia comunque il segno, soprattutto se concomitante con le procedure di promozione, in un paese in cui la notifica ad orologeria dell’avviso di garanzia a mezzo stampa non si è neppure risparmiata al premier nel momento stesso in cui presiedeva un grande consesso internazionale, c’è dell’altro. Oltre al bastone, il «sistema» dispone anche di una buona dose di carote che esso stesso produce.
E cioè la politica dei cosiddetti encomi. Cioè delle ricompense di carattere morale (semplici o solenni) che non sempre hanno un carattere unicamente morale. Perché impattano materialmente, questa volta in positivo, sulle carriere degli appartenenti alle forze di polizia.
E gli encomi, per l’attività operativa, sono rapportati principalmente alle denunce, agli arresti ed ai sequestri effettuati. Tutti cioè relativi all’attività di polizia giudiziaria ed ai cosiddetti risultati dell’attività della magistratura requirente. Mai, o quasi, alle sentenze della magistratura giudicante. Cioè alle condanne, alle confische di beni ed alle somme realmente recuperate o incamerate dalle casse dello stato, a seguito di contestazioni troppo spesso fumose, se non letteralmente gonfiate.
Appare quindi evidente che i dirigenti delle forze di polizia facciano carriera, al pari dei PM, non in base al numero ed alla qualità delle sentenze passate in giudicato, ma delle semplici attività preliminari.
Ed è un po’ come se la reputazione di un medico si basasse non sul numero dei pazienti guariti, ma su quello delle radiografie o amputazioni di arti effettuati a pazienti che poi risultano essere sani. Indipendentemente cioè dall’utilità, dal costo, dall’invasività della diagnostica e, soprattutto, dall’esito della stessa per la vita dei pazienti.
Ed anche questo perverso meccanismo fa parte del sistema scoperchiato da Palamara. Corollario del quale sono i roboanti annunci mediatici di tanti giornalisti che fanno parte del Sistema. E che al Sistema devono la loro notorietà e la loro sfolgorante carriera di cantastorie.
Riforma della giustizia e della politica degli encomi
Ormai, come detto in esordio, non mi stupisco più di nulla che faccia parte del «Sistema» reso pubblico da Palamara. Nonostante la bella recente notizia che, oltre che a Berlino anche a Palermo esiste un Giudice (la gi maiuscola non è un caso). Che ha finalmente reso Giustizia a servitori dello stato e presunti collusi col potere mafioso. Giudicati assolutamente innocenti, dopo essere stati triturati per decenni dal circo mediatico-giudiziario della cosiddetta «trattativa stato-mafia».
Mi stupirò invece il giorno che vedrà la luce una vera e radicale riforma della giustizia e del funzionamento della magistratura italiana. Che non sia l’ennesima riforma gattopardesca scritta dalla stessa magistratura. E che comprenda il divieto del distacco di magistrati presso organi dell’esecutivo. A cominciare dal Ministero della Giustizia. Attualmente occupato militarmente dalla Magistratura, come da tempo denunciato dall’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali.
Ma anche l’eliminazione dell’attuale prostrazione delle forze di polizia alle Procure della Repubblica. Includendo il sistema delle carriere dei loro dirigenti legate agli encomi. Che dovrebbero essere concessi per premiare i risultati di indagini che convincono non solo le Procure, bensì i tribunali e i giudici. Che i risultati di quelle indagini devono giudicare. In completa autonomia ed indipendenza dall’attuale strapotere delle procure.
Un sogno, sicuramente. Perché, visti i tempi attuali della giustizia, l’encomio rischierebbe di giungere quando il beneficiario è ormai in pensione.
Ma i sogni, spesso, aiutano a non disperare.
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