Quando si parla di Iran, nel mondo d’oggi, si pensa prevalentemente ad un Paese in deprivazione culturale.
Invece no. Si tratta di una Nazione con tradizioni secolari che, come altri Paesi del mondo, sta passando un periodo di (ed in) evoluzione.
Ed è un cambiamento non religioso, non identitario, non politico, ma sociale.
In questo percorso sono le donne le protagoniste. Non è una frase fatta. Basta considerare diversi fatti, aspetti, elementi.
Le donne iraniane protestano, si fanno arrestare, fronteggiano a viso aperto ciò che ritengono ingiusto e inconciliabile con la libertà e la dignità umana.
In tutto ciò fanno i conti con la propria vita terrena che, in alcuni casi, si perde a causa si opprimenti contesti interni.
Non è casuale che si utilizzi il termine “contesti” e non “contesto” perché l’Iran non è tutto oscurantista. Anzi. Così come non lo è tutto l’Islam (perché c’è un Islam che rimane religioso e non diventa politico).
La storia costituzionale iraniana recente aiuta a comprendere molte sfaccettature, soprattutto, riguardo all’essere donna in uno Stato che con la rivoluzione islamica degli anni settanta ha permeato la società. Esattamente è questo l’elemento cardine di valutazione da cui partire ovverosia la dimensione islamica in termini di concezione dello Stato e non di vita religiosa prescindente da quella politica.
Prendiamo, ad esempio, la protesta della studentessa universitaria che in pieno centro a Teheran si è svestita per dissentire pubblicamente con l’azione della polizia (fonte Ansa del 2 novembre scorso) che l’avrebbe aggredita per aver indossato male il velo islamico. La stessa donna è stata poi arrestata.
Ora, se consideriamo la normativa italiana lo stesso comportamento sarebbe stato sanzionato penalmente in base all’art. 527 del codice penale per “atti osceni in luogo pubblico” che, però, è stato depenalizzato per alcune dinamiche nel 2016 con la legge n. 8.
Ebbene, i concetti di luogo pubblico e di oscenità vanno contestualizzati rispetto alla morale del posto ed al senso di buon costume diffuso in una certa società.
Detti parametri, in una società costituzionalmente islamica come quella iraniana, conducono il gesto della ragazza ad un fatto anticostituzionale che, nella visione del contesto in sé, andrebbe punito in senso etico (quindi statale), religioso (quindi morale) e penale (sociale).
La domanda di fondo, quindi, sorge spontanea: ma una persona può protestare fino a svestirsi rispetto ad un’aggressione di un soggetto tenuto alla sicurezza ed all’ordine pubblico per un velo mal posto?
In Italia useremmo il c.d. principio di proporzionalità per spiegare come un poliziotto non possa aggredire un individuo per un velo mal posto e come la ragazza, a sua volta, non possa svestirsi in pubblica piazza per protesta rispetto ad un fatto che (sempre in ragione della invocata proporzionalità) renderebbe sufficiente un megafono, uno striscione, un corteo.
Ma noi in Italia non possiamo comprendere fino in fondo quel che le donne vivono in un contesto come quello iraniano in cui la Costituzione islamica vige basandosi su presupposti opposti al “modello liberal-democratico in senso stretto e classico”. Perché il concetto di libertà è diverso: in Occidente è dell’individuo dallo Stato; nell’Iran è del popolo nello Stato e si realizza con i precetti islamici.
Ciò non vuol dire che la Costituzione islamica sia migliore o peggiore di altre, perché va considerata in quanto tale e se accettata dal popolo che la osserva significa, consequenzialmente, che è rispettata nella sua interezza politico-sociale (l’auto-determinazione ci aiuta come principio sul punto).
In questa logica di cose va considerato, quindi, l’articolo 3 della Costituzione islamico iraniana il quale prevede “L’eliminazione di qualsiasi discriminazione inammissibile e la creazione di pari opportunità per tutti, in tutti gli ambiti materiali e spirituali”. Disposizione che, salvo errori di traduzione, fa pensare a come uomo e donna siano uguali per lo Stato. Ed in effetti lo sono nella concezione islamica dello Stato nel senso che entrambi hanno ruoli spiritualmente e socialmente diversi per garantire l’esistenza stessa della repubblica islamica.
D’altronde è interessante soffermarsi con attenzione il primo passaggio dell’art. 3 “eliminazione di qualsiasi discriminazione inammissibile”; sempre salvo errori di traduzione, sorgerebbe il dubbio: quali sarebbero le discriminazioni ammissibili? Con sforzo di interpretazione si potrebbe pensare a quelle che assicurino la realizzazione islamica dello Stato in cui non c’è un diritto dell’individuo in quanto tale, ma un diritto riconosciuto al popolo che, composto di individui, viene prima del singolo e dello Stato stesso (altra diversità con la struttura costituzionale italiana).
La prova provata è data dagli artt. 19 e 20 della Costituzione iraniana: nel primo gli eguali diritti non sono basati espressamente anche sul sesso, ma su altri caratteri (non definiti in fisici, genetici o altro poiché si rimanda alla interpretazione religiosa implicitamente).
Cosicché la frase “Nel rispetto delle norme islamiche tutti gli individui cittadini della nazione, sia uomini sia donne, sono uguali di fronte alla protezione della legge e godono di tutti i diritti umani, politici, economici, sociali e culturali” rimane un forte argomento di libertà per la dimensione femminile che, però, fa i conti con le interpretazioni delle norme islamiche calate nelle tutele costituzionali.
Interpretazioni, ovviamente, non uguali in tutti i popoli musulmani.
Da qui nasce la protesta delle donne iraniane. Nel contesto in cui si miscelano religione, senso di costume sociale, costituzione e politica islamica in un Paese che ha conosciuto l’Islam in senso statuale da meno di cinquant’anni.
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