Ecco un libro che serve. La vita di chi resta (Mondadori 2023, pp. 251, €18,50) è senza dubbio il miglior romanzo di Matteo B. Bianchi, eppure non è un romanzo. Non voglio fare il verso a Magritte, ma le cose stanno proprio come ho detto. In queste pagine, in cui le righe spesso si sperdono in mezzo ad ampi margini di bianco, paratesto genettiano per trasmettere l’idea dell’improvviso sentirsi solo e spaurito in mezzo al nulla dell’io narrante, c’è il racconto drammatico e asciutto del suo faticoso sopravvivere al suicidio di S., il suo compagno di vita per 7 anni, che s’impiccò nel 1998. Una catastrofe nella vita dello scrittore, su cui è riuscito a scrivere solo a distanza di quasi un quarto di secolo. Il tempo necessario per pennellare un’educazione al dolore.
L’autore ci permette così di entrare nella sua vita privata e osservare tutti i cupi colori del dolore e del buio del momento dopo. Anzi, si parte dal momento caino in cui “la sera ho allungato l amano nel buio per cercare l’interruttore della luce e ho trovato il suo corpo che penzolava” (77).
È un libro scritto molto bene: narratore omodiegetico in prima persona singolare, un lungo monologo interiore con un flusso di coscienza privo di slabbrature, un garbato gioco di analessi e prolessi in cui si inseriscono delle quasi-interviste a persone realmente esistenti: terapeuti e psichiatri esperti in suicidio. E ancora mogli di vip dello sport suicidi, e sensitive e pranoterapeuti e veggenti e gruppi di auto-aiuto e maestri di yoga: la ricerca di una qualunque forma di respiro è qui tratteggiata senza ritrosie: il narratore è consapevole di essere arrivato al proprio nadir. Sono però, tutte queste, mere comparse, che rimangono sullo sfondo di una tela narrativa che, verso la fine, passa dal diario intimo al quasi manuale di auto-aiuto.
Bianchi, in questa tavolozza così atipica, seleziona pochi aggettivi, nessun avverbio se non quelli indispensabili. C’è un unico fatto da raccontare, su cui far ruotare il resto dei suoi sentimenti, del suo senso di solitudine, di annichilimento, di incapacità ad andare avanti, per poi alla fine trovare una porta, aperta quasi per caso. Questo stile emoziona. Sì, a qualcuno potrà infastidire e allora si parlerà di pornografia dei sentimenti. A me non ha dato fastidio. La penna di Matteo B. Bianchi questa volta c’è e sa prendersi tutto il suo spazio. In questo senso, pur non offrendo al lettore una trama, o intrecci, o personaggi secondari, o colpi di teatro o una morale, pur rappresentando un grado prossimo allo zero della creatività e della inventiva, è anche letteratura, perché riesce a essere universale e a insegnare qualcosa. Io, da sopravvissuto a mia volta al suicidio di un fratello, la vedo così.
La vita di chi resta non è però solo un diario su quanto si frantuma dentro a chi sopravvive al suicidio di chi ci ha amato. È anche un libro sul potere della scrittura. Lo riconosce esplicitamente l’autore stesso, che a pagina 141 cita, non in esergo ma come elemento centrale del suo lavoro, una frase della scrittrice Lidia Yukanavitch:
“Le cose che ci succedono sono vere. Le storie che raccontiamo a riguardo sono scrittura.”
Quella frase galleggia a metà libro come un gancio, ma è poi ripreso verso la fine, laddove Bianchi riflette sul senso di scrivere e di essere uno scrittore, quando rivela: “Da giovane mi chiedevo quando uno potesse considerarsi uno scrittore. […] Poi col tempo l’ho capito: sei scrittore perché pensi da scrittore. Perché le cose che ti capitano cerchi di immagazzinarle, perché ricordi i nomi delle persone, i luoghi, gli intrecci, perché hai la tendenza a rievocare il passato in forma di storie, perché non ti limiti a vivere le esperienze ma vuoi analizzarle in cerca di un inizio, uno sviluppo e una fine, perché attraverso la scrittura tu dai un senso alle cose.” (239-40). La scrittura come unico farmaco per ciò che farmaci non ha. Bianchi non è certo il primo a sostenerlo, ma in queste pagine lo illustra assai bene.
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