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L’Emilia-Romagna con l’acqua alla gola

Giornalista e Docente
L’Emilia-Romagna con l’acqua alla gola

Un muro di acqua e fango che travolge tutto ciò che incontra ha flagellato l’Emilia-Romagna e l’allerta non sembra finire, col paradosso incredibile per cui la pioggia, attesa come una benedizione per i tanti mesi di siccità (Francesco D’Assisi la presenta come “utile et pretiosa”) si è trasformata in poche ore come una maledizione e una punizione caduta come un diluvio inarrestabile. 

Un copione però che sembra già visto: non possiamo ignorare l’amara verità di aver disatteso l’implorazione fatta da esperti climatologi in questi anni e ci siamo in qualche modo costruiti con le nostre mani quella “trappola” evocata dalla sapienza antica per cui l’uomo nella prosperità non comprende e nella smania del consumo e del benessere abbiamo come fallito nel comprendere l’essenza delle cose, prigionieri della nostra stessa miopia, insensibili al richiamo urgente del nostro stesso ecosistema. Eppure, come ammonisce con maestria Gary Snyder, la natura non è una mera meta da visitare, ma è casa nostra. Questa verità incontestabile dovrebbe risuonare come un ultimatum, spingendoci a superare il lamento per gli sfollati e il dolore per i dispersi e a riconquistare una connessione profonda con il nostro ambiente circostante. Lo dobbiamo proprio alle vittime di queste ore e alle famiglie che hanno perso tutto. 

Ma in che modo?

Ebbene, dobbiamo costruire senza mettere a rischio fiumi e torrenti, pensare ai nostri paesi e alle nostre città come ospiti gentili graditi dell’ecosistema pensando ad un’urbanizzazione armonica che non è una cosa impossibile ma fattibile.

È da qui che dobbiamo partire, affrontando in modo responsabile e consapevole una crisi climatica così evidente che solamente una politica miope e testarda può ancora ignorarla tra progetti non implementati e rimpalli decisionali tra livelli di governance.

In questo film che abbiamo già visto troppe volte, stiamo vivendo in queste ore il primo tempo ovvero quello dell’emergenza in cui  siamo tra i migliori al mondo: abbiamo una Protezione Civile che si distingue all’estero come forse la migliore al mondo e un corpo di  vigili del fuoco indefessi che sì salvano vite umane, ma a cui diamo uno stipendio medio annuo di 22.000 euro lordi che – permettetemi – è una cifra inaccettabile, indegna per quelli che oggi una retorica dell’emozione chiama angeli del fango ma che poi tante grazie, strette di mano e ci vediamo alla prossima emergenza!

Questo è solo un esempio di quella ingratitudine del dibattito pubblico (ricordiamoci i balconi per dottori e infermieri che continuano a prendere botte nei turni di pronto soccorso …)  a cui personalmente non desidero associarmi.  Dobbiamo quindi andare direttamente al cuore del problema, pensare concretamente tornando a fondi previsti non spesi, a ministri e dirigenti che non leggono le carte e ad una burocrazia che sta uccidendo il progresso di questo paese.

Nei prossimi giorni mentre si ritireranno le acque melmose vivremo il secondo tempo di questo film dove emergeranno le vere debolezze sistemiche: dalle case costruite in luoghi impropri, alle infrastrutture in rovina, alla mancanza di manutenzione dei fiumi passando per ostacoli burocratici, i ricorsi infiniti e tutti i lacci che hanno intralciato persino quei sindaci e amministratori locali e regionali che avrebbero voluto amministrare con competenza. Queste acque del caos sono quindi metafora del caos dell’inazione di coloro che detengono il destino del nostro paese ma che – scommettiamo – si azzufferanno rimpallandosi le responsabilità ma non possiamo permetterci ulteriori tentennamenti per una stabile capacità di gestione del territorio che non sia frutto di interessi particolari ma si poggi sull’interesse generale, nostro e dell’ambiente.

Se ci pensate, questa furiosa rabbia della natura di “locale” non ha nulla e non fa differenze tra luoghi e colori politici: è l’ira globale di un pianeta che grida nel deserto del nostro egoismo, che ci chiede di prendere sul serio il rapporto tra urbanizzazione ed ecosistema senza dimenticare che questo rapporto è diventato addirittura un precetto costituzionale meno di un anno e mezzo fa con la sacrosanta riforma dell’articolo 9. Una riforma oltretutto che ci insegna almeno due cose tra le tante: per prima cosa la salvaguardia degli ecosistemi non può essere considerata come un’opzione o un’attività secondaria, ma come un obbligo fondamentale per il bene della società e delle generazioni future. E sottolinea l’importanza di una gestione oculata delle risorse naturali, promuovendo pratiche sostenibili e responsabili, un principio che implica l’adozione di politiche che favoriscano lo sviluppo sostenibile, l’uso razionale delle risorse e la riduzione dell’impatto ambientale delle attività umane. Dobbiamo perciò porre fine a questo consumo sconsiderato di suolo e risorse idriche, riunendo tutte le forze politiche intorno a un tavolo (se solo potesse accadere, invece di assistere al rimpallo sterile delle responsabilità).

E dobbiamo riflettere sulla fragilità dei nostri territori, che sono la nostra casa, l’unico pianeta che abbiamo.

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