Allora, oggi è tutto un florilegio di articoli e post su quanto Chiara Ferragni sia privilegiata e “grazie che ce l’ha fatta” con quei soldi e le tate e senza gender gap; e poi la solfa della letterina a se stessa recitata con quella voce emozionata e un po’ stridula; e per carità , facile parlare per lei, alta bella bionda e magra: altro che body positivity! Se era brutta, ancora ancora! Mi fermo qui.
Certo, avrebbe giovato alla performance ferragnesca di ieri, sul palco dell’Ariston, un registro un po’ più autoironico, un po’ più “scialla Chia’, anche meno”. Per non parlare – signora mia – del “tono di voce” con cui ha letto la lettera alla Chiara bambina: quell’emozione fastidiosa che – sovente – provoca a noi donne, piccoli smottamenti nella voce (e nel trucco). E poi, va bene il messaggio di pensarsi fuori dalle gabbie – culturali e non – ma se non hai soldi, come puoi riuscire a essere povera e libera?
Ora, dopo averle fatto le pulci, ricordando alle lettrici e ai lettori critici che, tuttavia, Ferragni è un’imprenditrice, che i soldi non le sono stati regalati, che il privilegio non è nascere in un bel corpo, ma ottenere un riconoscimento immeritato e portarlo a spasso per il mondo con saputa spavalderia, dopo tutto questo, sarebbe bene imparare a prendere consapevolezza che ragionare in questi termini è parte del problema e non la soluzione.
E chiedersi: perché mai gli uomini, su quel palco (e non solo), rappresentano solo se stessi, e nessuno – nessuno – rimprovera mai loro gli enormi privilegi di cui godono da tempo immemore, mentre ogni donna che emerge e ha successo deve contemporaneamente: rappresentare tutte le donne, denunciare privilegi e ingiustizie, essere novelle Wonder Woman, un po’ attiviste e possibilmente graffianti e lucide nel tono di voce, un pizzico politiche, avvocate del popolo e poi , poi, anche una fettina di culo!
L’equità di genere non è il risultato di un processo, ma il processo stesso: che si alimenta di piccoli passi, di palchi dell’Ariston come della spesa al super, della divisione dei compiti a casa, oltre che di indulgente consapevolezza rispetto alle proprie possibilità e ai propri limiti. Non serve fare la voce grossa e arrabbiarsi con chi ce l’ha fatta, mentre noi siamo partite da lontano leggendo bell hooks, e quella si faceva il semipermanente scattandosi i selfie. Non serve alla causa, non serve ad accrescere la parità di genere. E neanche all’elaborazione di un pensiero sensato e realmente equo.
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