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Medici stranieri, la nuova linfa per il deserto sanitario italiano

Giornalista freelance
Medici stranieri, la nuova linfa per il deserto sanitario italiano

Un esercito di oltre centomila tra medici e infermieri, fisioterapisti, farmacisti e anestesisti, medici di emergenza, ortopedici, radiologi, chirurghi e pediatri. Cosa hanno in comune? Sono stranieri, vivono in Italia ma non possono lavorare nei nostri ospedali pubblici.

Quelle stesse strutture sanitarie che, a fronte della grave carenza di personale medico e paramedico stanno chiudendo i battenti: la chiamano desertificazione sanitaria e affligge l’Italia da Bolzano a Reggio Calabria. E le cifre del rapporto di Cittadinanzattiva, “AHEAD – Action for Health and Equity Addressing Medical Desert” (cofinanziato dal Programma europeo sulla salute) mettono a fuoco un fenomeno che definire “emergenziale” suona come una battuta di cattivo gusto visto che questa “emergenza” è iniziata circa 15 anni fa.

Per fare alcuni esempi, la provincia di Asti conta meno pediatri per numero di bambini rispetto al resto di Italia: ogni professionista segue 1813 bambini fra gli 0 e i 15 anni, la media nazionale è di 1/1061 e la normativa prevede circa 1 pediatra per 800 bambini; nella provincia di Bolzano ogni medico di medicina generale segue in media 1539 cittadini dai 15 anni in su (la media nazionale è di 1 medico ogni 1245 pazienti); a Caltanissetta e provincia c’è un ginecologo ospedaliero ogni 40.565 donne (la media italiana è di 1/4132); a Bolzano si trova un cardiologo ospedaliero ogni 224.706 abitanti (la media è di 1/6741).

Eppure questi 100 mila professionisti di origine straniera in Italia, potrebbero davvero salvare il servizio sanitario italiano, sia pubblico che privato: l’Amsi, Associazione medici stranieri in Italia, ha calcolato che – da gennaio 2023 ad oggi – hanno salvato col proprio lavoro più di 1800, tra dipartimenti e servizi, tra cui quelli di pronto soccorso.

“Di questi professionisti”, spiega Foad Aodi, fondatore e presidente dell’Amsi che vive in Italia dal 1981, “conosciamo esattamente ruoli e incarichi: 35mila sono medici, 40mila sono infermieri, 7mila sono odontoiatri, 7mila fisioterapisti, 6mila farmacisti, 2.500 sono psicologi, 2.500 svolgono il ruolo di podologi, tecnici di radiologia, biologi, chimici, fisici”.

“Eppure il 75% dei professionisti stranieri della sanità – privi di cittadinanza – lavora in strutture private (accreditate e non)”, spiega il professor Aodi, “perché, di prassi – nella giungla di interpretazioni legislative che impegna da anni i tribunali – in assenza di disposizioni legislative chiare, è l’art. 51 della Costituzione” ad avere la meglio: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici […]”. E dunque il medico arruolato dal Servizio sanitario nazionale può essere solo cittadino italiano.

Questo perché, mentre la legge Martelli (Dl n. 416 del 30 dicembre 1989) permette a chi ha studiato in Italia di iscriversi all’Ordine dei Medici anche senza la cittadinanza italiana ma con il permesso di soggiorno in regola, per tutti gli altri professionisti – provenienti da paesi non appartenenti all’Unione europea e in possesso di un’abilitazione all’esercizio di una professione – è obbligatorio ottenere il riconoscimento del proprio titolo per poter esercitare la professione in Italia e iscriversi agli Ordini (decreto Ciampi n. 394 del 1999). Riconoscimento che, tuttavia, si sa quando inizia ma si ignora quando finirà: le strade della burocrazia italiana sono infinite.

Quando, a marzo 2020 – uno dei mesi più difficili del Covid – gli ospedali pubblici del Paese dovettero gestire un’emergenza a cui non erano preparati, il decreto Cura Italia, in deroga all’obbligo di riconoscimento dei titoli di studio previsto nel decreto Ciampi, consentì l’esercizio temporaneo della professione sanitaria agli operatori che ne presentassero istanza col solo certificato di iscrizione all’albo del Paese di provenienza.

Come nella migliore delle tradizioni italiche, la norma del Cura Italia è stata poi prorogata fino al 31 dicembre 2025.

Così, l’assessore al Welfare della Lombardia, Guido Bertolaso vorrebbe portare in Italia oltre 3mila infermieri e 500 medici direttamente dal Sudamerica.
Mentre a marzo, un centinaio di medici – soprattutto argentini e cubani – sono stati reclutati in seguito all’avviso aperto (dunque, senza scadenza) pubblicato dalla Regione Sicilia: dove mancano in organico ben 1494 camici bianchi.
Si tratta, in entrambi casi, di assunzioni a tempo determinato: provvedimenti tampone che provano ad attrezzare una risposta provvisoria a un problema ormai strutturale.

“Ci lasciamo alle spalle un 2023 che ha rappresentato l’anno dei record per le richieste di professionisti della sanità decisi a lasciare l’Italia, ”, spiega Foad Aodi: “Abbiamo il dovere di impedire questo esodo ma per farlo, dobbiamo creare le condizioni per arginare” quella che appare come una vera e propria “fuga”.
Dall’inizio del 2023 ad oggi, sono più di 7500 i professionisti della sanità a essersi rivolti all’Amsi per lasciare l’Italia. E oltre 4mila delle 6mila richieste sono per i Paesi del Golfo, in particolare, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Qatar.
“Dobbiamo renderci conto”, spiega Aodi, “che da qui a 5 anni i Paesi del Golfo domineranno la scena della sanità mondiale, con la loro organizzazione, con il loro investimento nella sanità che tocca il 10% del Pil rispetto al nostro che scende addirittura sotto il 7%.

Già ora Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Kuwait, Bharain e Qatar attirano professionisti da tutta Europa: i migliori, con stipendi faraonici, con alloggi e bollette pagate, con viaggi aerei gratuiti, con percorsi di integrazione culturale per le famiglie dei medici che decidono di lasciare l’Italia.
Stipendi più congrui, valorizzazione contrattuale, facilitazione di accesso ai concorsi per i medici e per gli infermieri di origine straniera senza obbligo di cittadinanza, snellimento della burocrazia, eliminazione delle discriminazioni nei confronti dei professionisti di origine straniera (aumentate del 35% dal 2000) e battaglia aperta alla medicina difensiva: solo così, secondo Foad e la sua associazione, si potrà avere un indispensabile ricambio generazionale di medici nei reparti di emergenza urgenza che sono quelli oggi più sguarniti di competenze e di uomini e donne della sanità.