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No money No politica. Maturità e coraggio per ripensare al finanziamento della democrazia

Agitatore culturale
No money No politica. Maturità e coraggio per ripensare al finanziamento della democrazia

“No money, no party – e soprattutto no Politica”, a meno che non sia ricolma d’ignoranza, di demagogia e soprattutto di populismo. Eppure, nonostante tutto ciò sia ormai evidente e oggetto di cronaca quotidiana, il tema del mancato finanziamento della politica continua ad essere un tabù tanto per i partiti, quanto per l’opinione pubblica.

 

Quello dei soldi, infatti, è il tema per antonomasia che divide amici, amanti, parenti. Di solito le polemiche arrivano quando i soldi sono pochi ma anche quando sono tanti. Non è questo il caso della politica che da anni ormai sta verificando il drastico calo degli introiti e sta facendo i conti con gli effetti degli stessi. Se fino a qualche tempo fa il problema erano i troppi fondi elargiti a politici, rei di gonfiare i rimborsi e arricchirsi con essi, oggi invece a tener banco è la penuria dei finanziamenti, che, tra un taglio e un altro, rischiano di lasciare il pallino della politica nelle mani dei super ricchi o di chi ambisce alle cariche elettive per evitare l’ufficio di collocamento. La situazione è ormai intollerabile per una democrazia che si vuole legittimamente definire tale e occorre pensare ad una rapido cambio di passo. Ma l’origine del male è culturale oltre che pratico.

 

Nel 1974 con la legge Piccoli (l.195/1974) introdusse, per la prima volta, il finanziamento pubblico ai partiti. La Piccoli fu una legge nata per contrastare la collusione tra la politica e i grandi gruppi d’interesse privato. In questo modo la macchina politica iniziò sostentarsi da sé e la riforma fu così efficace che nel 1981, (con la l. 659) si decise persino di ampliare alcune tipologie di finanziamento. Poi ci fu la caduta della politica, quando le inchieste di Davigo e di Pietro portarono alla luce Tangentopoli. Un’onta questa, che tuttora permea l’immagine della politica e che ha sicuramente favorito la nascita di partiti demagogici e giustizialisti come i Cinque Stelle. Ma uno degli effetti più importanti delle inchieste di Tangentopoli, fu quello di portare all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (fatta eccezione per quello elettorale), col referendum del 1993; promosso dai Radicali e al quale gli italiani risposero in maggioranza “sì”. Che quella del taglio netto fosse una riforma impropria e dettata del rigurgito emotivo generato degli scandali giudiziari fu evidente a tutti, tanto che tra il 1993 e il 1999, con le leggi l. 515 e 157, si decise di aumentare i rimborsi elettorali sino a renderli equiparabili a un finanziamento partitico vero e proprio. Tuttavia, questa rinnovata fiducia nella politica fu rimessa in discussione negli anni successivi, quando Monti prima (l. 92/2012) e da Letta poi (d. l. 149/2013), ridussero e poi abolirono definitivamente il finanziamento pubblico ai partiti. Attualmente esistono delle forme di finanziamento indiretto per i partiti presenti in Parlamento, attraverso il bilancio della camera (Art. 15, co. 4) e del senato (Art. 16, co. 1-2), e che nel 2019 ammontavano rispettivamente a 31 e 22 milioni di euro. Sembrano certamente cifre importanti, ma comunque insufficienti se si considera l’attuale struttura della politica e soprattutto la futura riduzione dei seggi parlamentari. Tant’è che si prevede che a questo taglio dei seggi possa corrispondere una riduzione del 30% del volume delle donazioni verso i partiti – fonte Transparency International –, ed inoltre, meno parlamentari significa anche minori “rimesse”; ovvero quella quota di stipendio che deputati e senatori riversano nelle casse del partito.

Di fatto, l’effetto complessivo delle riforme varate negli ultimi 10 anni è stato quello di generare una proliferazione di strutture private, le Fondazioni, legate a personaggi politici di spicco e a partiti, attraverso le quali si è sostenuta l’attività della classe dirigente. Ma anche questa forma di finanziamento non è priva di macchia, perché il cittadino dovrebbe sempre poter conoscere i nomi di chi ha dato i soldi a tizio e caio, mentre le Fondazioni ( non tutte) hanno fatto troppo spesso da scudo a tale tracciamento.

 

E dire che nel resto d’Europa, al netto degli scandali, si sono trovate vie più stabili: ad esempio, in Germania si usano i rimborsi elettorali, come in Francia, dov’è possibile anche il finanziamento diretto, mentre nel Regno Unito – fuori dalla zona UE, ma comunque culla della democrazia parlamentare – sono previsti dei contributi per le sole forze d’opposizione; ed ovviamente, in tutti questi Paesi sono previste delle forme di finanziamento privato. Ma allora perché in Italia si è scelto un finanziamento così intricato?

 

In parte perché effettivamente gli scandali legati al finanziamento pubblico sono tuttora salienti, nonostante questo tipo di sostentamento sia stato abolito da tempo; e a ricordarlo è lo scandalo della Lega e i suoi 80 milioni di euro. Poi perché l’onta di Tangentopoli continua a persistere ed è tuttora sostenuta dalla prima forza politica in Parlamento. Ma il vero problema è che si sceglie di rinunciare al finanziamento pubblico, ci si deve assumere il peso di regolamentare quello privato, con tutto ciò che quest’ultimo comporta, anche in termini morali. Se invece si sceglie il finanziamento pubblico diretto, occorre rivedere i sistemi di controllo di tali fondi, affinché il passato resti tale oltre a pretendere dai partiti chiarezza riguardo il loro funzionamento interno ( condizione fondamentale e su cui in Italia siamo molto indietro).

 

E dire che esisterebbe anche una terza via. Si potrebbero, infatti, finanziare gli attrezzi della democrazia, come la propaganda, l’attività elettorale e gli strumenti di diffusione delle idee più partecipativi, così da rendere i partiti meno autoreferenziali. Infine, occorrerebbe rendere più tracciabile e trasparente il percorso che dal privato conduce al decisore pubblico, ridefinendo così anche il concetto di Lobby e gruppo d’interessi. D’altro canto, un finanziamento pubblico integrale, rischia spesso di trasformarsi in una stampella per gli apparati partitici, piuttosto che in un mezzo per il sostegno delle attività essenziali per una democrazia; come un confronto su temi e idee, soprattutto fuori dalla campagna elettorale. Si potrebbe quindi cogliere l’occasione della revisione della legge elettorale per prendere una decisione circa il finanziamento della politica, affinché essa sia libera di promuove idee senza guardarsi da sola allo specchio e in balia di quei pochi che possono permettersi di farla. Perché se si lascia spazio ai soli stereotipi, alla demagogia e ai pochi protagonisti che abitano la politica, allora non ci si può più stupire di una classe dirigente priva di cultura e impreparata per il ruolo che deve svolgere. D’altronde, se si pensa che la politica costi, vuol dire che non si conosce il prezzo del sistema attuale: e dire che la storia è proprio lì a ricordarci come va a finire.

 

Francesco Caroli