Questa pandemia ha certificato l’esigenza di ripensare al modo in cui Stato, Regioni e Comuni debbano prendersi cura del benessere dei propri cittadini. Occorre infatti rivedere come la medicina locale riesca a raggiungere le abitazioni private e come interagisce con il territorio; e come quest’ultimo debba essere ripensato per rispondere meglio alle esigenze di salute dei cittadini che lo abitano. D’altronde, se la risposta alla pandemia fosse un’opera teatrale, non potrebbe che essere pirandelliana, contraddistinta da paradossi esistenziali che lentamente sprofondano nel tragico. Dopo tutto, a distanza di un anno, su un elemento sono tutti d’accordo: l’emergenza Covid in Italia ha certificato l’assenza di quella rete di prevenzione e di assistenza sanitaria capillare e radicata nel territorio che avrebbe potuto salvare molte vite.
A conferma di ciò ci viene offerta la testimonianza dei tanti medici, infermieri e personale ospedaliero. Sono loro a dirci come le eroiche realtà ospedaliere abbiano lavorato senza sosta, mentre le strutture per la prevenzione, la famigerata medicina territoriale e preventiva, fatichino ancora ad ingranare la marcia, o, peggio ancora, rispondano a logiche con evidenti limiti organizzativi e progettuali.
E dire che tra tutte le potenziali pandemie che negli ultimi anni hanno minacciato l’essere umano, il Covid rappresenta forse quella meno grave, almeno dal punto di vista clinico. Mers, Sars ed Ebola, infatti, hanno tassi di mortalità ben più alti, ma una contagiosità più ridotta, che infatti le ha rese più gestibili. Ed è quindi proprio in virtù della minore letalità di SarsCov2, ma una sua maggiore velocità di propagazione, che occorre ripercorre le tappe dell’anno che ci ha appena salutato per capire cosa sia andato storto.
Di fatto SarsCov2 ha potuto beneficiare di almeno tre acceleratori. Il primo è stato il cambio negli stili di vita reso possibile dalla Globalizzazione, la quale ha favorito un maggior flusso di persone da un continente all’altro ed ha permesso al virus di trasmettersi più velocemente. Il secondo, invece, è da ricercarsi nell’inefficacia dei piani di contenimento istituiti a livello centrale e locale. Ed infine, l’ultimo acceleratore, nonché probabile punto zero di trasmissione, è stato l’ambiente nel quale il virus si è diffuso maggiormente, ovvero quelle città ricche di relazioni, di scambi, di incontri, che sono luogo prediletto di contagio. Quelle stesse città nelle quali, a onor del vero, erano già presenti altri problemi di salubrità, che rispuntano, ad esempio, ciclicamente ogniqualvolta l’Unione Europea ci multa per gli sforamenti delle polveri sottili.
Ed è per questo che occorre domandarsi: che cosa possiamo fare per arginare future pandemie, emergenze e le crescenti aspettative della popolazione sui temi della salute?
Una prima risposta potrebbe essere quella di rendere il sistema immunitario delle nostre città e dei comuni, più forte sul territorio. Occorre quindi integrare il sistema ospedaliero con uno di assistenza sanitaria e sociale locale, che deve quindi essere costruito e valorizzato attraverso una presenza sul territorio, che non corrisponde esclusivamente a nuove istituzioni fisiche e murarie ma che deve davvero prevedere dei sistemi di intervento innovativi e a domicilio. Occorre disegnare un sistema che abbia gli strumenti, le risorse e le figure professionali capaci di raggiungere tutte quelle case e le persone che necessitano di assistenza. Superando di fatto il concetto per il quale è il malato a recarsi nel luogo di cura e non viceversa. È quindi necessario progettare una sanità agile, non solo telematica, ma composta da persone preparate e attrezzate per giungere là dove c’è bisogno, anche casa per casa, un po’ come fa Amazon. Nel Recovery Plan è menzionata la medicina telematica, territoriale, le case della salute e gli ospedali territoriali che certamente servono, ma occorre anche capire come davvero potenziare la rete di operatori sul territorio, altrimenti il carico di lavoro graverà sempre sulle strutture attuali progettate male.
È poi necessario realizzare una vera formazione professionale del personale sanitario impiegato nel territorio e con essa una revisione totale del ruolo e della figura del medico di base. In questo modo si potrebbe rendere più efficace quel filtro, tra la richiesta di assistenza dei cittadini e le funzioni dei pronto soccorso ospedalieri, che è venuto meno durante l’attuale pandemia. D’altronde è solo rinforzando, ma soprattutto ripensando nel complesso il ruolo dei presidi sanitari locali, che potremmo avere quegli “anticorpi” della prima linea necessari a prevenire nuovi affanni al sistema sanitario complessivo.
Ma oltre a ripensare al come la sanità territoriale debba intendersi e organizzarsi, occorre ripensare anche allo spazio urbano e quindi alla struttura delle nostre città, per renderle più congeniali ai criteri sanitari e di benessere dei propri cittadini come ha suggerito Stefano Capolongo sul Sole 24 Ore. È necessario infatti porre al centro dei criteri di organizzazione dell’urbanistica il concetto di urban health, ponendo così un’attenzione concreta sull’ampliamento delle aree verdi presenti nelle città, insieme a un ripensamento degli spazi cittadini, che introduca e agevoli nuovi modi di spostarsi e che incentivi e promuova stili di vita più orientati al benessere fisico e psicologico. E’ anche su questo, sulla capacità cioè della città di offrire un modello “in Salute” che si giocherà la competizione tra metropoli.
E’ verissimo, il benessere economico è centrale per il funzionamento di qualunque società contemporanea, ma rimane pur sempre subordinato a quello fisico e psicologico, e l’attuale pandemia lo ha dimostrato. Per questo l’Italia, grazie al Recovery Fund, ha finalmente la possibilità di investire i suoi soldi ( in prestito) per rendere concreti tutti quei progetti che mettano il benessere dei suoi cittadini al centro, in tutte le sue forme. Senza un piano di spesa che sappia guardare al futuro, capace di ripensare a interi comparti della società, ponendosi l’ambizioso e necessario obiettivo di unire ambiti fino ad ora intesi come distanti come quello dell’assistenza sanitaria e dell’urbanistica, si rischia di gettare al vento un’occasione irripetibile e forse l’ultima, almeno per la generazione attuale e quella che verrà. La consapevolezza di nuovi problemi dovrebbe portare alla ricerca di soluzioni davvero innovative. L’abbiamo capito oppure no?
© Riproduzione riservata