“Volevo raccontare le donne e la vita, ma poi ho rinunciato alle donne” – così un realistico Paolo Sorrentino a proposito di Parthenope, la sua nuova pellicola da giovedì scorso nei Cinema. Una sintesi perfetta per un uomo troppo intelligente per intraprendere un’avventura piena di insidie non solo empatiche e introspettive ma anche di giudizio, pubblico, generale, di quello impietoso che non consente la libera lettura del mondo femminile senza qualche naturale stizzita reazione di una categoria troppo eterogenea per restituirne una narrazione veritiera e comune.
Parla di tutto ma non di donna: troppo, troppo complicato o pericoloso. Paradossalmente è più facile ripercorrere il divenire della vita che non quello dell’essere donna. Ciò nonostante ne esce un ritratto suggestivo di questa Parthenope, nata nelle acque inconfondibili del quartiere più aristocratico di Napoli, Posillipo, che divide la città popolare, nota a tutti, da quella pericolosa dei Campi Flegrei. Parthenope è una ragazza bellissima. Costantemente in costume da bagno a mostrare un corpo desiderabile che i suoi coetanei bramano e gli anziani apprezzano pur rispettandone la gioventù. Non ha una fisicità prepotente, misure conturbanti, seni invadenti o fianchi esagerati: è proporzionata, minuta, proporzionata, un viso fresco, capelli ondulati ed un garbo ammaliante strisciante, sottile, impercettibile ma assolutamente presente.
Se “l’eleganza non è farsi notare ma farsi ricordare” (come diceva il più famoso stilista del mondo, Giorgio Armani), Parthenope è la più elegante di tutte e, fra le tante donne del film, quella sottoposta al continuo desiderio sessuale maschile a cui lei si concede con estrema parsimonia, più appagata dagli sguardi vogliosi che dalle azioni di fatto, in una permanente vanità che raramente si tramuta in lussuria (anzi, forse mai, dato che il sapore degli approcci amorosi è sempre tiepido, pudico, a volte perfino distratto). Un’assoluta celebrazione della bellezza dei corpi giovani, quello suo e quelli dei suoi coetanei che osano, o vorrebbe osare, spensierati e giocosi e che col tempo lascia il passo a quella dell’età più matura, meno libera e più ponderata, dove non basta esserci ma serve anche essere riconosciuti.
Si innesta così il bisogno di vivere una passione (fare l’attrice o fare la professoressa universitaria) in quella che è la naturale ricerca del “proprio posto nel mondo”, del senso della vita, di quell’identità pubblica che la società ne tributa solo dopo il proprio personale percorso. “Chi sono io? quello in cui gli altri mi riconoscono” (Umberto Galimberti) e così Parthenope inizia a inseguire i suoi talenti: si lega i lunghi capelli e, coperta in anonimi tailleur, quasi scompare nella folla generale nella quale lo sguardo dello spettatore la ritrova solo per le attenzioni che qualcuno, il professore della cattedra di antropologia, le continuerà a tributare.
Le proporrà di andare ad insegnare a Trento per poi tornare a Napoli e prendere il suo posto perché oramai prossimo alla pensione, ma lei resterà fra le valli trentine perché “sono rimasta sedotta dal gusto dello speck”, frase a cui ovviamente nessuno ha potuto crederci. La sua diventerà una bellezza decadente, triste, nostalgica, in bilico fra le memorie di una vita e un dono come la bellezza che, seppur così prepotente all’inizio, non ha saputo offrirle concretamente nulla. Se non brevi ma inebrianti attimi giovinezza.
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