Lo abbiamo detto già un paio di mesi fa: l’Italia non avrebbe potuto permettersi di farsi trovare impreparata al momento dell’arrivo delle dosi di vaccino anti Covid-19, e avrebbe dovuto predisporre per tempo un’adeguata strategia di vaccinazione. Un piano preciso sul da farsi. Invece, siamo partiti decisamente zoppi.
A fronte di 470mila dosi di vaccino consegnate all’Italia tra il 30 dicembre e il primo gennaio, a giornata inoltrata di lunedì 4 ne risultavano somministrate appena 122mila. Le altre quasi 350mila sono rimaste in attesa. Poi dal 6 il ritmo è aumentato – 80mila dosi al giorno in Italia – ma ancora in modo insufficiente. Ci sono stati problemi di approvvigionamento con Pfizer, che doveva consegnare altre 470mila dosi ma ne ha consegnate solo 215mila, e poi 224mila dopo due giorni.
Il via libera al vaccino Moderna sblocca nuove dosi. Ma aver puntato molto su altri vaccini (Astrazeneca) non ancora approvati lascia l’Italia indietro. Secondo i programmi del commissario Arcuri entro marzo avremo quasi sei milioni di cittadini vaccinati. Appena il 10%. Se facciamo il dieci per cento ogni tre mesi, ne usciamo in due anni e mezzo. Troppo tempo, troppo lenti.
C’è stato un caso sulle siringhe: molte regioni hanno ricevuto siringhe troppo grandi, adatte per miscelare il vaccino ma non per iniettarlo. Per qualche giorno si è proceduto con le scorte che gli ospedali avevano in magazzino. Ma era una soluzione d’emergenza. Nelle ultime ore sono però arrivate tutte le forniture previste e il problema si sta risolvendo. Ma la prima settimana è stata sicuramente di falsa partenza. Il percorso dovrà durare mesi e ci si augura che si prenda un ritmo diverso, soprattutto quando si dovrà cominciare con le vaccinazioni di massa, e i problemi logistici e organizzativi potrebbero esplodere clamorosamente su larga scala.
Per esempio, quello delle forniture delle siringhe, e in particolare di quelle da un millilitro di capacità che servono per l’effettiva iniezione (mentre ci sono quelle da 3 e da 5 millilitri, utili per la diluizione della soluzione). Oppure la lista delle sedi dove effettivamente le vaccinazioni di massa avverranno, lista che ancora manca. E ancora il reclutamento del personale deputato alle somministrazioni: il bando che ha aperto la selezione dei 3mila medici e dei 12mila infermieri necessari si è chiuso solo lo scorso 28 dicembre, l’iter è ancora in corso. Anche se ogni regione procederà con i propri ritmi e la propria strategia vaccinale (sperando che si voglia fare a gara a chi arriva prima, e non solo a non essere gli ultimi), le prime indicazioni non fanno pensare a un piano particolarmente svelto.
Per raggiungere come dichiarato una copertura dei due terzi dell’Italia entro fine estate, ossia 40 milioni di persone e 80 milioni di dosi, bisogna somministrarne 300mila al giorno. Ciò significa che non solo rispetto a quanto accaduto nella settimana di riscaldamento, ma anche rispetto a quanto dichiarato come obiettivo, serve decisamente un cambio di passo. Un carico da mezzo milione dovrebbe essere gestito ed esaurito in due giorni al massimo, una volta consegnato. E tutto ciò ci dice anche che più della disponibilità effettiva delle dosi e della gestione logistica – su cui l’attenzione non può che restare massima – il vero collo di bottiglia rischia di essere proprio l’ultimo miglio, quello dell’iniezione del millilitro di soluzione vaccinale nel braccio delle persone.
Quello che sembra mancare più di tutto, è in fondo l’unico vero limite generale dell’organizzazione, è il senso della straordinarietà dell’impresa a cui il nostro paese è chiamato in questo 2021. Accelerare la campagna vaccinale – e, ribadiamo, trovare modi per aumentare l’adesione delle persone alla campagna stessa – significa ridurre il numero di contagi, dunque attenuare il numero di casi gravi, di ricoveri in terapia intensiva e di decessi. Quindi salvare vite, e allo stesso tempo spostare un po’ più indietro nel tempo il momento in cui ci si potrà permettere di allentare le misure di contenimento e garantire un ritorno a una parvenza di normalità.
In una situazione di questo genere, al netto di tutte le difficoltà organizzative e comunicative tipiche di un contesto fluido, si dovrebbe essere pronti a gestire anche lo scenario più sfidante. E non, come è accaduto già con le mascherine, con il tracciamento dei contatti e con i tamponi rino-faringei, a trovarsi sempre ad arrancare e a rincorrere. Ci vorrebbe, come altri paesi tra cui Israele stanno dando dimostrazione di saper fare, uno sforzo straordinario, con risorse pronte e schierate, magari persino in abbondanza. Doppi o tripli turni, spazi predisposti, materiali sanitari consegnati in anticipo e un certo margine di vantaggio sulla tabella di marcia.
Mentre in questi giorni sono al centro della discussione i dettagli fini delle singole percentuali di utilizzo delle dosi regione per regione, oltre che stato per stato, diventa sempre più urgente organizzare le prossime fasi della vaccinazione. Quelle, vale a dire, che dovrebbero riguardare gli ultraottantenni, poi gli ultrasettantenni, le forze dell’ordine, le persone con importanti patologie pregresse e poi via via a cascata tutto il resto della popolazione. Sarà in questa fase, in cui auspicabilmente le dosi arriveranno a gran ritmo, in cui essere celeri nel somministrare significherà fare ancora di più la differenza, oltre ad alleggerire problemi come il mantenimento al freddo delle scorte.
In altre parole, siamo partiti in ritardo ma non è ancora troppo tardi. Senza scordare che, tra i tanti temi che si profilano all’orizzonte, merita grande attenzione quello della partecipazione alla campagna vaccinale. Al di là della questione della fiducia nell’operato della scienza, su cui intervenire è doveroso ma complesso, anche la robustezza del sistema organizzativo stesso può contribuire a portare le persone ad aderire alle vaccinazioni. E oltre alla logistica, al personale e alla strumentazione, pure questa componente più immateriale e umana del piano vaccinale merita di essere affrontata con consapevolezza e metodo. E per tempo.
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