L’espressione politica del Novecento si caratterizzò nel solco dello Stato Nazione, quale espressione della dimensione politica del tempo, fino a definirne il volto del secolo. E di questa esperienza permane ancora, tra alcuni, l’idea che sia necessario allargare i poteri di tale dimensione del governo pubblico per risolvere i problemi attuali, piuttosto che cercare altrove un modo efficace per gestire la globalizzazione e per rinsaldare il rapporto tra cittadini e istituzioni. Fortunatamente, seppur con fatica, la strada intrapresa è un’altra e prevede il sostegno e il rafforzamento della “crescita” della dimensione delle Istituzioni concepita per provare a governare e fronteggiare “la mondializzazione dell’economia” (Cassese docet). La conseguenza da registrare è un preoccupante allontanamento dei cittadini dai luoghi della politica attraverso un processo lento ma decisamente progressivo. Per evitare questo preoccupante fenomeno occorrerebbe fornire maggiore peso istituzionale ai Comuni e conferire loro strumenti normativi appropriati. Il riconoscimento istituzionale dell’importanza della dimensione comunale, ovvero il riconoscimento del ruolo politico delle città, potrebbe rappresentare la soluzione adeguata per soddisfare l’esigenza di partecipazione dei cittadini e con essa una concreta forma di condivisione del potere.
Non parliamo di una novità della storia, per secoli infatti, i comuni sono stati il pilastro della vita politica e sociale, soprattutto in Europa, e oggi possono ritrovare il vigore perduto in un nuova valorizzazione e riscoperta del “municipalismo” quale via per ricongiungere i cittadini alla gestione della cosa pubblica.
Nel secolo scorso l’umanità ha si assistito a conflitti tra nazioni (di cui i maggiori quelli mondiali), ma ha poi visto nascere nuove unioni tra Stati (come la nascita dell’UE e la sua evoluzione), accordi commerciali globali (WTO) ad embarghi multilaterali a singoli stati (come nuova forma di guerra silenziosa). In coda al Novecento, infatti, l’esplosione del fenomeno della globalizzazione ha portato a maturare la consapevolezza di vivere in un mondo troppo grande per essere affrontato da uno stato nazionale. Da qui è poi emersa la necessità di mettersi insieme per reggere la sfida globale, contraddistinta da flussi e competitor sempre più grandi; a questo si è poi aggiunta la presa di coscienza dell’esistenza addirittura di aziende private dal potere economico e politico infinitamente più grande di singoli stati, se non addirittura di continenti.
In questo scenario, ad esempio, gli Stati europei, troppo piccoli per pensare di esistere in un mondo così grande e veloce, si sono rifugiati e continuano a farlo (seppur rallentati dal mix di ottusità e ignoranza dai sovranisti) nella costruzione di un’Unione Europea sempre più coesa e forte. Una direzione obbligata questa, dettata dalla necessità di sopravvivenza nonostante i molti errori commessi durante il percorso di unificazione: dal disegno della forma stessa delle istituzioni agli assurdi poteri di veto dei singoli stati. Col tempo si spera che tali errori vengano corretti e si prenderà atto che la mentalità legata al protagonismo degli stati nazionali è decisamente obsoleta. D’altronde, la domanda riguardo al come organizzare, governare, dirigere la mondializzazione dell’economiaconfermerà inevitabilmente come risposta quella di conferire un maggior ruolo e peso alle istituzioni sovranazionali. Il prezzo da pagare, nonostante gli sforzi (ammesso si inizino concretamente a fare), sarà quello di un distacco tra le nuove grandi istituzioni sempre più articolate e sovranazionali e i cittadini che le eleggono (questa dovrebbe rimanere una condizione essenziale), attraverso procedure più o meno dirette. Alla distanza tra grandi istituzioni e cittadini sempre più “lontani”, si aggiunge inoltre la crescente complessità dei fenomeni, la quale rende difficile anche ai cittadini più volenterosi la comprensione e la partecipazione al dibattito pubblico.
Ma una democrazia senza coinvolgimento dei cittadini nelle scelte che contano, senza la possibilità di dar loro perlomeno la sensazione di poter incidere, senza soddisfare la loro voglia di partecipazione, non è una democrazia o meglio non è un sistema sostenibile, perché dall’esclusione si genera disagio, rabbia e frustrazione sociale che inevitabilmente sfocia in disordini e perdita di quell’equilibrio fondamentale per la vita di una società sana e democratica.
Per evitare questa deriva basterebbe prendere atto di come ormai l’Occidente o meglio il modello di vita occidentale ormai diffuso in tutto il mondo attraverso i nuovi mezzi di comunicazione dalle tv, alle serie cinematografiche, ad internet, ecc, si regga sempre più sui centri urbani (altro che islamizzazione mondiale o decrescita felice nelle campagne!). Dalla polis greca ai giorni nostri, il carattere occidentale si è forgiato nelle città. Ad esempio, noi europei costituiamo un’Europa delle città molto prima di essere un’Europa di Stati nazionali. Milano, Parigi, Barcellona, Berlino hanno molte più similitudini rispetto ai rispettivi stati nazionali. Tutto questo negli ultimi anni, è stato oggetto di studio: la cooperazione tra città è diventato un filone consolidato di ricerca negli studi politici e urbani. Tuttavia, i contributi sul tema tendono a concentrarsi sugli aspetti pragmatici delle collaborazioni municipali, glissando sui fondamenti ideologici che uniscono questa visione. Ed è questo aspetto, invece, che oggi merita più attenzione.
La crescente integrazione, collaborazione, sinergia tra città è stata dapprima caratterizzata dal forte pragmatismo, ovvero dalla necessità di sviluppare e condividere prassi e modalità di gestione dei problemi dei cittadini, in modo che le migliori pratiche potessero essere condivise, valorizzando i progetti e i cambiamenti più efficaci. Ma negli ultimissimi anni si è andati oltre: ha iniziato a radicarsi infatti una visione più condivisa del ruolo delle città, quali federatrici di vere e proprie concezioni del mondo, di modi di interpretare la modernità, di una nuova “cultura”, proponendo così un nuovo modello basato su una concezione policentrica e diffusa del potere. È come se nel tempo le città abbiano strutturato una rete di relazione reciproca, politicamente trasversale, e capace di veicolare e fondare sia una “scienza comunale”, dedita al buon governo cittadino, sia una mutua cooperazione, questa volta ideologica e culturale, volta a perseguire fini umanitari ed etici.
Un binomio tra prassi e idee che dall’Ottocento a oggi accomunano i diversi centri urbani. Ideologia e prassi, pensiero e azione. Un municipalismo pragmatico che indica una varietà di pratiche interurbane, che vanno dai gemellaggi tra città ai progetti collaborativi e alle reti interurbane più strutturate, a un municipalismo ideologico una sorta di corpus di credenze coerenti su come dovrebbe funzionare il sistema sociale e che pretende una visione alternativa o conservatrice dello status quo.
Al centro del pensiero vi è inoltre la convinzione della preminenza delle città, concepite come loci basilari per l’organizzazione della vita sociale, economica, culturale e politica di una società. I Comuni come cellule attive in uno stato sociale basato sul territorio. Occorre prendere atto che le attività degli enti locali non sono prive di valori o puramente utilitaristiche, ma sono invece sempre guidate da principi etici e politici. Come in un circolo virtuoso, la prassi si alimenta di una base valoriale, che a sua volta stilizza una visione ideale e normativa di come la realtà potrebbe e dovrebbe essere.
Un municipalismo addirittura globale può permettere di affrontare le giganti sfide politiche dei prossimi decenni. Un esempio concreto e tremendamente attuale è sicuramente la rete delle C40 Cities – Climate Leadership Group, una rete globale di grandi città che operano per sviluppare e implementare politiche e programmi volti alla riduzione dell’emissione di gas serra e dei danni e dei rischi ambientali causati dai cambiamenti climatici, con sede a Londra e che ora conta la partecipazione di oltre 100 città.
D’altronde, la forza delle città, a dispetto di quella degli stati, e quella di potersi proporre come una forma di governo decentrata tanto legata al vissuto dei cittadini, quanto a visioni e idee trasversali. Non è certo un caso che un numero crescente di città attuino programmi politici radicali e autonomi. Ovviamente, tutto questo non pretende la fine dello stato-nazione per costruire un ordine politico di tipo medievale. Piuttosto suggerisce una forma di decentramento (più o meno radicale), per cui i servizi pubblici dovrebbero essere gestiti dal livello amministrativo più vicino ai cittadini. In questo contesto, le reti urbane transnazionali – e più in generale i progetti interurbani congiunti –possono essere concepite come una forza propulsiva verso una tale “unificazione dal basso” nonché un tentativo di superamento di una “logica basata sull’equazione sovranità-territorio” e sviluppando al suo posto nuove forme di ‘sovranità condivisa’.
In tale ottica, occorre dunque che le città siano riconosciute come attori centrali del sistema istituzionale: il che vuol dire riconoscere il ruolo del livello locale e collegarlo con quello europeo, ad esempio, colmando le distanze tra le istituzioni dell’UE e i cittadini, ed inoltre svolgendo una funzione democratizzante. In questo senso, il già vasto repertorio di pratiche comunali transnazionali, dai gemellaggi tra città e reti tra i comuni, ai progetti di cooperazione, segnala di fatto un tentativo di decentralizzare e diffondere così l’autorità decisionale tra città situate in diversi paesi europei. Ad esempio, nell’Europa orientata alla sostenibilità, i Comuni che la formano si stanno oggi facendo i portavoce più autorevoli, come dimostra il caso di Anne Hidalgo a Parigi e Sala a Milano, entrambi rieletti su progetti radicali come quello della città in quindici minuti. Per queste ragioni, abbiamo di fronte un pensiero politico sotterraneo e onnipresente, incentrato sul mutualismo e la condivisione che mira a soddisfare i bisogni delle città e quindi quelli dei loro cittadini. E se questi ultimi si fidano delle loro istituzioni locali, ecco allora che queste potrebbero fungere da punto d’incontro tra le istituzioni sempre più grandi, rese necessarie dalla globalizzazione, e quelle piccole e più vicine ai cittadini. D’altronde quest’ultimi hanno il diritto di sentirsi partecipi della vita politica contemporanea.
Nel momento in cui si tornerà a discutere di riforme istituzionali occorrerà quindi riconoscere l’importanza strategica nell’impianto complessivo dei comuni e fornire loro opportuni strumenti, fondi adeguati e nuovi quadri normativi, per permettergli di esprimere finalmente tutto il loro enorme potenziale. D’altronde questo è ciò che richiedono anche i più giovani, che se nel Novecento sentivano il proprio futuro inevitabilmente legato a quello della propria nazione, oggi invece, lo percepiscono come legato al luogo a essi più vicino, ovvero la loro città. Oggi, infatti, i giovani scelgono il Comune di cui diventare liberamente cittadini, sposandone l’anima e abbracciandone il destino. D’altronde gran parte della storia della modernità si è basata sui Comuni, e l’insegnamento da trarre è sempre lo stesso: per progettare il futuro occorre imparare dal passato.
Francesco Caroli
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