Che cos’è il Recovery Fund e qual è l’obiettivo del Recovery Plan? La risposta dovrebbe essere univoca: uno stimolo a produrre cambiamenti che generino una forte ripartenza. Eppure ancora ad oggi le bozze che circolano sono per lo più figlie di ideologie identitarie o bandierine elettorali utili, forse, ad ottenere il consenso presso il proprio elettorato di fiducia. A farne le spese, però, è il fallimento sistematico dell’obiettivo principale ovvero costruire l’Italia di domani. Il nuovo esecutivo Draghi dovrà subito mettersi al lavoro per invertire la rotta. Non sarà di certo facile, ma al nuovo Presidente del Consiglio non manca di certo il coraggio per partire da quei numeri che già da tempo indicano la via verso una possibile rinascita del Paese.
In primis l’arretratezza dell’imprenditoria italiana, che dal 1995 al 2019 ha generato un tasso di crescita medio della produttività pari a zero, a cui si deve aggiungere una carenza nell’istruzione per il 40% della forza lavoro compresa tra i 25 e 64 anni. A questo scenario poi, già di per sé paludoso, si accompagnano altri due dati, il primo è il tasso di occupazione femminile, del 14% sotto la media europea, e infine l’età media dei dipendenti pubblici, col 45,4% di essi che ha più di 55 anni (contro la media Ocse di 24,3%). Questi dati fotografano alcuni dei problemi dell’Italia d’oggi e di ieri, come ad esempio l’assenza di una riforma della PA che sappia incentivare il rinnovamento e la valorizzazione delle competenze e del merito. Così come un piano d’istruzione straordinario rivolto anche alla classe lavoratrice, magari abbinato a un aumento della concorrenza tra i privati che sappia premiare l’innovazione. Ed infine, ma forse più importante del resto, servirebbe un appoggio concreto alle donne, ancora costrette a scegliere tra lavoro e famiglia per mancanza di una rete d’assistenza adeguata e capace di adattarsi a una società che cambia: e solo questo ci costa il 7% del Pil.
Inoltre, a tutti questi fattori si sommano i mali atavici dell’Italia, come ad esempio un sistema di giustizia inefficiente, una carenza di infrastrutture fisiche e digitali, una burocrazia costosa e che fatica ad aggiornarsi, ed infine una perenne instabilità politica: su quest’ultima basterebbe rammentare come in 75 anni di Repubblica vi siano stati ben 67 governi.
Tuttavia, il germoglio della rinascita esiste, il Covid infatti è riuscito a fare quello che la politica non ha fatto per decenni. Per esempio l’Europa, per la prima volta dalla sua formazione, ha deciso di contrarre debito comune per sostenere il cambiamento proprio in quei Paesi più colpiti dalla pandemia e senza i quali non avrebbe neppure senso il concetto stesso di comunità europea. Ma invece di cogliere quest’occasione e rilanciare il Paese in questi mesi si è perso tempo o perseverato con la ricetta Mazzucato e la Repubblica del Sussidistan. Una scelta che darà forse più voti, ma di sicuro lascerà un debito ben più grande del macigno già ampiamente descritto da Cottarelli nei suoi numerosi saggi. Senza considerare poi che la correlazione stessa tra clientela e voti, oggi evoluta in sussidi/voti, non è affatto scontata, come dimostra il lento declino dei 5 stelle. Promettere la felicità, infatti, è un suicidio, perché essa è un sentimento individuale e non una condizione sociale; e per questo l’asticella diventerà sempre più alta e il sussidio che rende felice oggi, domani potrebbe non bastare più.
Che fare quindi? Di fatto non tutti questi problemi sono affrontabili all’interno del NextGeneration EU (il vero nome del piano Europeo perché rivolto alla sostenibilità generazionale). Tuttavia, sarebbe già sufficiente prendere poche priorità e immaginare un piano strutturale di riforme profonde, da accompagnare – se necessario – con delle spese una-tantum per “oliare i cambiamenti”. L’espressione, semplice e concreta, nasce dal Presidente della Commissione finanze alla Camera Luigi Marattin, e racchiude di fatto tutto quello che dovrebbe essere il vero senso del Recovery Plan. La logica del piano, che dovrebbe ispirare le importanti decisioni politiche/economiche, dovrebbe essere questa: riforme, accompagnate dalla spesa necessaria per la loro implementazione e non spesa accompagnata da riforme prive di alcuna giustificazione strutturale. E su questo, l’auspicio è che sotto la guida sapiente di Mario Draghi i partiti politici italiani abbiano un sussulto di responsabilità e lungimiranza.
Occorre infatti impiegare i soldi del Recovery Fund per un progetto di riforme strutturali, come ad esempio quella della giustizia – tra l’altro richiesta anche dall’EU –, della pubblica amministrazione – anch’essa necessaria per ottenere i soldi europei – ed infine dell’istruzione; perché senza cultura, senza innovazione, la produttività è destinata a restare inchiodata a zero anche per le future generazioni. Riforme ragionate e per le quali ci vorrebbe uno spirito d’iniziativa nuovo, anche dal punto di vista dei promotori e fruitori; e dunque una scuola pensata sulle necessità degli studenti (e delle loro famiglie), una giustizia pensata anche per imputati e avvocati, così come una PA pensata dalla parte dei cittadini e non solo dei dipendenti pubblici, rimasti spesso fermi nella loro identificazione al secolo scorso. Proprio riguardo agli statali, sarebbe auspicabile un aggiornamento della loro figura professionale e con essa la nascita di un dipendente pubblico 4.0. Ed ovviamente, ma questo dovrebbe già averlo reso evidente l’attuale pandemia, occorre rivedere dalla A alla Z il sistema sanitario nazionale, implementando la medicina territoriale e riequilibrando i rapporti tra pubblico e privato; soprattutto in quelle regioni dove a prevale è quest’ultimo.
D’altro canto il Recovery Fund rappresenta la fiducia dell’Europa nei confronti dell’Italia e degli altri Paesi che rendono giustizia all’intento fondativo dell’Unione stessa, ed è per questo che mancare quest’impegno significherebbe tradire l’idea di un’Italia europeista. Ed è per questa ragione, inoltre, che il Recovery Plan dovrebbe essere il più ambizioso possibile, perché quello che conta davvero è riuscire a incrementare il tasso di crescita del Pil, affinché in futuro si possa ripagare il debito e rilanciare il Paese ed assicurare così un futuro sereno ai nostri figli. Ad oggi, però, di tutto questo abbiamo visto ben poco ed è proprio per questo, che, al netto di personalismi e ripicche, è di fatto naufragata l’esperienza Conte. Quello che è mancato, infatti, è stato soprattutto il coraggio. Come diceva Totò “Il coraggio non mi manca. È la paura che mi frega”. Già, la Paura. La paura di cambiare un sistema, quello italiano, che misteriosamente tira avanti ma non scoppia, come un pugile suonato che continua ad incassare colpi senza stramazzare al suolo. Ma per quanto tempo potrà ancora continuare? A Mario Draghi spetta ora il compito gravoso di farsi pioniere di un nuovo approccio coraggioso nelle scelte politiche e di guidare il Paese nel mare delle sue paure di cambiare se stesso.
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