John Maynard Keynes è conosciuto a livello mondiale come uno dei più importanti economisti del Novecento, e forse come il più noto di tutti, grazie alla sua teoria sul deficit spending, alla base del welfare state anglosassone e poi scandinavo così come lo abbiamo conosciuto.
Un po’ meno nota, almeno oggi, la sua iniziale attività di consulente economico-diplomatico per il ministero del Tesoro britannico e vice del Cancelliere dello Scacchiere nel Consiglio economico supremo al termine della Prima guerra mondiale, quando il nostro – appena 36enne – prese parte alla Conferenza di pace di Versailles (18 gennaio 1919 – 21 gennaio 1920), dando delle dimissioni per dissenso politico che all’epoca fecero scalpore. Proprio in relazione a quelle dimissioni, Keynes pubblicò nel 1919 questo suo pamphlet Le conseguenze economiche della pace (trad. it. di Franco Salvatorelli, Adelphi, 2007, 234pp., 22€) un vero e proprio j’accuse nei confronti soprattutto del Primo ministro francese George Clemenceau e del Presidente americano Woodrow Wilson, due dei “tre grandi” (l’altro era il Primo ministro britannico David Lloyd George, e se vogliamo seguire la storiografia italiana, il nostro Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando sarebbe stato il quarto dei, a quel punto, “quattro grandi”).
Si tratta di un testo agile e profondo, la cui prima parte dovrebbe esser fatta leggere a tutti gli studenti di Storia o Economia dell’ultimo anno della scuola secondaria superiore, mentre la seconda parte, più tecnica dal punto di vista economico, potrebbe esser lettura da primo anno di Scienze politiche o Economia.
Stiamo parlando di un saggio che fu un best-seller in tutto il mondo e fu fondamentale per stabilire l’opinione generale che collocava i trattati di Parigi alla stregua di una “pace cartaginese” progettata per annichilire economicamente e politicamente le potenze centrali sconfitte, su tutte la Germania, che passava allora dal Secondo Reich alla Repubblica di Weimar. La valutazione di Keynes contribuì a consolidare l’opinione pubblica americana contraria ai trattati e all’adesione alla stessa Società delle Nazioni voluta da Wilson, alla quale il Congresso americano rifiutò l’adesione facendo nascere quell’organizzazione sostanzialmente morta. La percezione, da parte di gran parte dell’opinione pubblica britannica, che la Germania fosse stata trattata ingiustamente fu, a sua volta, un fattore cruciale per il successivo sostegno pubblico alle politiche di appeasement di Chamberlain verso la Germania ormai in mano a Hitler.
D’altro canto, il successo di questo lavoro di Keynes avrebbe poi consolidato la reputazione del suo autore come economista di punta, soprattutto a sinistra. Quando Keynes diventò uno dei protagonisti della creazione del sistema di Bretton Woods nel 1944, si ricordò delle lezioni di Versailles e della Grande Depressione. Lo stesso Piano Marshall, promulgato per ricostruire l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, avrebbe preso spunto dal sistema proposto da Keynes in Le conseguenze economiche della pace.
L’interesse principale di Keynes era quello di evitare che i risarcimenti alla Francia da parte della Germania venissero fissati a un livello così alto da traumatizzare il popolo tedesco, da danneggiare la capacità di pagamento della nazione, e da limitare fortemente la sua capacità di acquistare esportazioni da altri Paesi, danneggiando così non solo l’economia tedesca, ma anche quella dell’Europa e del mondo intero.
Uno dei punti eccellenti di questo libro di Keynes è la sua chiarezza espositiva, che si può apprezzare fin dall’introduzione, dove l’autore indica in modo cristallino i motivi per cui scrive:
“I capitoli seguenti intendono dimostrare, tra l’altro, che I nostri rappresentanti alla conferenza di Parigi hanno commesso due grandi errori a danno dei nostri interessi.” (13)
E ancorché nelle righe di Keynes manchi una condanna esplicita anche dell’atteggiamento di Lloyd George (del resto l’economista ne era un suo dipendente, ma le dimissioni erano già di per loro una chiara presa di posizione contraria), sono presenti consigli e reprimende anche per il governo di Sua Maestà:
“Tutto questo io ho caldeggiato nei capitoli che seguono. Ritengo giusto e opportuno che l’Inghilterra non avanzi pretese sulle riparazioni pagate dalla Germania finché non siano soddisfatte le richieste, più pressanti, di Francia e Belgio; che l’Inghilterra e gli Stati Uniti cancellino interamente le somme loro dovute dei loro alleati, somme che non hanno alcun diritto di considerare alla stregua di investimenti commerciali; e che mediante un prestito generale noi cerchiamo di ricostruire una parte del capitale di esercizio dell’Europa. […] Non mi sia accusi di distribuire malamente le mie simpatie perché raccomando, anche, di tenere fede alla parola data a un nemico umiliato, e di mirare alla ripresa e salute dell’Europa intera.” (14)
E ancora:
“Non si creda che io imputa alla sola Francia la colpa di questo disastroso trattato, colpa che in verità è distribuita fra tutti gli eventi parte. L’Inghilterra, si può giustamente osservare, non hai esitato a promuovere i propri egoistici, presunti interessi, e a lei spetta la responsabilità principale per la forma del capitolo sulle riparazioni. L’Inghilterra ha ottenuto colonie e navi e una quota di riparazioni maggiore di quella cui ha legittimamente diritto.”(15)
Il suo bersaglio preferito, tuttavia, è chiaramente il governo francese, allora impersonificato più di chiunque altro da quel Clemenceau che si era guadagnato il soprannome de “la tigre” proprio per la sua abilità oratoria, dialettica e retorica, in grado di mettere all’angolo i suoi pari, a cominciare dal presidente statunitense Wilson:
“Clemenceau guadagnò fama di moderazione presso i colleghi di consiglio respingendo a volte con un’aria di imparzialità intellettuale le proposte più estreme dei suoi ministri; mentre molte cose passarono là dove i critici americani e britannici erano naturalmente un po’ ignari del vero punto in questione, o là dove criticare con troppa insistenza la Francia metteva gli alleati in una posizione da loro giudicata odiosa, di apparire sempre inclini a prendere le parti del nemico e sostenere la sua causa. […] Clemenceau era il membro di gran lunga più eminente del Consiglio dei Quattro, e aveva soppesato i colleghi. Solo lui aveva un’idea, e insieme ne aveva considerate tutte le conseguenze. La sua età, il carattere, l’ingegno, l’aspetto si combinavano nel dargli oggettività e un profilo definito in un ambiente di confusione.” (Capitolo III, La conferenza, p. 38-9)
E ancora:
“Clemenceau pensava della Francia quello che Pericle pensava di Atene: essa era per lui un valore senza pari, e nient’altro importava. La sua teoria della politica era quella di Bismark. Aveva una sola illusione, la Francia; e una sola delusione, l’umanità, inclusi i francesi e non ultimi i suoi colleghi. Esporre i suoi principi per la pace è abbastanza semplice. Anzitutto egli aderiva fermamente, in fatto di psicologia tedesca, all’opinione secondo la quale il tedesco capisce ed è in grado di capire soltanto l’intimidazione; è privo di generosità e di scrupoli nel negoziare, pronto ad approfittare di qualunque vantaggio contro di te, disposto a ogni bassezza che torni utile; senza onore, senza orgoglio, senza misericordia. Quindi non bisogna mai negoziare con un tedesco o blandirlo: bisogna comandargli.” (Capitolo III, La conferenza, p. 41)
La condanna di Keynes dell’atteggiamento francese sulla Germania non potrebbe essere più radicale:
“Per quanto possibile, perciò, era intento della politica francese di mettere indietro l’orologio e annullare i progressi compiuti dalla Germania dopo il 1870. Con le perdite territoriali e altre misure si doveva ridurre la sua popolazione; ma soprattutto bisognava distruggere il sistema economico su cui si basava la sua novella forza, la vasta struttura edificata sul ferro, il carbone e i trasporti. Se la Francia poteva impadronirsi, sia pure in parte, di ciò che la Germania era costretta a cedere, alla disuguaglianza di forze tra i due paesi rivaleggiandoti per l’egemonia europea si sarebbe posto rimedio per molte generazioni.” (Capitolo III, La conferenza, p. 43)
Ecco dunque che, per Keynes, “la tigre” mancando di visione si trasforma in “un vecchio”:
“È, questa, la politica di un vecchio, nel quale le impressioni più forti e la più viva immaginazione appartengono al passato e non al futuro. Clemenceau vede le cose in termini di Francia e Germania, non di umanità e di civiltà europea in cerca di un nuovo ordine.” (Capitolo III, La conferenza, p. 43)
La visione europea di Keynes è quanto più mi ha affascinato di queste righe. Un economista britannico nato nel 1883 che si rende conto, già nel 1919, di quanto il futuro dell’Europa appena uscita dalla più atroce delle guerre possibili possa essere solo nell’ottica almeno di un mercato comune, se non di una confederazione futura. Sempre che si voglia evitare un’altra guerra mondiale da lì a vent’anni. Formidabile come l’analista preveda non solo la Seconda guerra mondiale, ma anche la necessità di un successivo mercato economico europeo comune.
L’altro bersaglio grosso della tagliente penna keynesiana è poi Woodrow Wilson, già rettore di Princeton e uomo innamorato di sé e della sua visione, ma del tutto incapace di esercitare l’immenso potere che è nelle sue mani come inquilino della Casa Bianca:
“Ma se il presidente [americano] non era il re-filosofo, che cos’era? Dopotutto egli non era un uomo che aveva passato e buona parte della sua vita nell’università. Non era assolutamente un uomo d’affari o un comune politico di partito, bensì un uomo di grande forza, personalità e importanza. Qual è la dunque il suo temperamento? Il bandolo, una volta trovato era illuminante. Il presidente assomigliava un pastore non conformista, diciamo un presbiteriano. Il suo pensiero e il suo temperamento erano essenzialmente teologici, non intellettuali. […] Non solo egli non aveva proposte particolareggiate, ma era per molti versi, forse inevitabilmente, disinformato circa la situazione europea. E non solo era disinformato – si può dire altrettanto di Lloyd George – ma la sua mente era lenta e poco elastica. […] non era capace, lì per lì, di comprendere quello che gli altri dicevano, valutare la situazione a colpo d’occhio, concepire una risposta, e far fronte al problema con un lieve cambiamento di terreno; ed era quindi soggetto essere sconfitto dalla sveltezza, perspicacia e agilità di un Lloyd George. Penso ci siano rari esempi di uno statista di primo piano più inetto del presidente alle schermaglie della camera di consiglio.” (Capitolo III, La conferenza, p. 47-8)
E in fondo, con quelle poche righe che collocavano Wilson nella sua giusta nicchia di “pastore presbiteriano dalla mente lenta e poco elastica”, Keynes assestava il colpo di grazia a un uomo politico i cui errori politici sul piano internazionale e domestico avremmo pagato tutti con l’avvento al potere di Adolf Hitler in Germania, tramite regolari elezioni.
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