Il denso saggio del professor Salvatore Cingari “La meritocrazia” (Futura, 2020, € 15, pp. 249) avrebbe dovuto in realtà chiamarsi “Contro la meritocrazia“. Il problema dei testi che trattano questo ormai tanto dibattuto tema è che l’argomento si è polarizzato in modo eccessivo. Quindi, se sei vicino alla sinistra marxista, dovrai essere quasi naturalmente contro il principio di meritocrazia, mentre se sei dalle parti del liberalismo o del neoliberalismo, dovrai esserne un fautore, meglio se selvaggio.
Questa dicotomia rende molto faticoso trovare degli studi oggettivi, scevri da pregiudizi ideologici. Anche questo bel lavoro di Cingari non fa eccezione: l’autore — che collabora con Il Manifesto, e pubblica per Futura, l’elegante casa editrice che raccoglie il patrimonio della Esi (Editrice sindacale italiana) e della Ediesse, dunque la casa editrice della CGIL — ha una tesi ben precisa contro la meritocrazia, così come viene fuori dai suoi diversi articoli accademici che dipingono la meritocrazia come una sorta di Satana collocato a destra, fra “ordoliberisti” come li chiama teneramente lui, e conservatori più o meno autoritari, più o meno estimatori del “modello Singapore”. In questo saggio, Cingari rinforza la sua religione politica citando quasi solo ciò che porta acqua al suo mulino.
Di buono c’è che Cingari è un ricercatore serio, capace di citare studi non solo europei e americani, ma spazia anche sullo stato dell’arte asiatico, da Singapore al Sud Corea. Ho perfino trovato un’analisi su una collettanea curata dal socialista Claudio Martelli, lavoro certamente minore, che però ha una sua rilevanza sulla storia del pensiero politico italiano del Novecento.
Ne vien fuori un testo completo e compendioso, purtroppo ultra-fazioso ma denso (ho dovuto rileggere alcuni passaggi più di una volta, e la mia lettura non era distratta), comunque utile a chi voglia approfondire l’argomento partendo però dal concetto che la meritocrazia, qui, è il bau-bau. Cingari preferisce un egualitarismo di stampo babeuffiano, che non tiene in conto come in Natura siamo tutti diversi (differenti talenti, differenti passioni, differenti capacità) e solo il Diritto ci ha reso tutti uguali davanti alla Legge. Ma la nostra sacrosanta uguaglianza giuridica di stampo illuministico non può e non deve mai appiattire tutto il resto in un unico calderone.
Fra le manchevolezze che ho scorto ci sono piccolezze (i testi di Fabio Mussi e Matteo Renzi 2013 non sono in bibliografia) e punti più squalificanti: il primo di questi è che l’intero lavoro è impostato come se tutti coloro che sono pro-meritocrazia siano, in un modo o nell’altro, contro il welfare state e il progresso, e in sostanza sono dipinti nel migliore dei casi come dei radical-chic a cui i poveri, e coloro che non hanno realizzato ciò che desideravano realizzare nella vita, stanno cordialmente antipatici.
Questa tesi deborda nella disonestà intellettuale, perché che io sappia l’unico politico che sussume questa doppia posizione anti-welfare state e pro-meritocrazia è l’illiberale Orban, premier dell’Ungheria, che per altro rivendica un’alterità rispetto al pensiero liberale, che lui contrasta, e che anche da Cingari è visto come se fosse il nemico. Sarebbe un po’ come se io volessi associare le posizioni del migliorista Napolitano a quelle di Stalin: non si fa. Nella destra italiana poi, sia quella cosiddetta “sociale” che quella “liberale”, molto raramente la meritocrazia gode di buoni uffici e infatti al posto del merito subentra la sua nemesi di cui Cingari non tiene in nessun conto: il nepotismo, che dovremmo cominciare a chiamare cognatismo o fratellismoditalia.
L’altra debolezza culturale importante di questo lavoro è che Cingari associa i pro-meritocratici ai populisti. Questo è veramente un delitto culturale, perché i populisti (e non c’è bisogno di scomodare i populisti russi dell’ottocento o quelli americani del People’s Party: sul populismo ci sono saggi solidi che lo hanno definito in modo efficace riferendosi al Novecento e al XXI secolo, e stupisce che nessuno di questi lavori sia citato da Cingari) sono proprio gli alfieri di un egualitarismo peloso e idiota, che contesta in radice ogni principio meritocratico, non potendo la loro classe dirigente esprimere quasi alcuna competenza specialistica. Non a caso il M5s usa il nome di Rousseau per la sua improbabile piattaforma.
Quindi, associare gli epigoni della meritocrazia in Europa (da Macron a Renzi, passando appunto per Martelli, ma anche – incredibilmente – Bersani, oltre che Veltroni, Prodi) alle loro figure antitetiche (da Trump a Thatcher, inclusi May, Berlusconi, Salvini) a me è parso un fortissimo boomerang che mina la serietà accademica di questo volume. A un certo punto sembra che Cingari si senta come un contemporaneo Don Quijote che combatte da solo contro tutto il mondo: vede temibili populisti-meritocratici-ordoliberisti ovunque, appunto da Bersani a Prodi, da Veltroni a Renzi, da Berlusconi a Salvini, in pagine dove di notte tutte le vacche sono nere.
Ultimo errore importante: quando Cingari parla di scuola confonde la “chiamata diretta” (quella in vigore nel Regno Unito, che a me non convince) con la “chiamata per competenze” che fu ottimamente prevista dalla riforma Giannini del governo Renzi. Egregio professor Cingari, se lo lasci dire da un insegnante di liceo: lei sovrappone due istituti differenti. La chiamata diretta è a opera del preside che decide in solitudine, e prescinde da altri parametri. La chiamata per competenze era invece a opera dello staff del DS, da svolgersi nelle settimane di ferie obbligatorie dei capi d’istituto, e doveva tener conto delle competenze che il collegio docenti oppure il comitato di auto-valutazione di ogni scuola avevano stabilito essere necessarie. Due metodi di assunzione di insegnanti che non si possono proprio sovrapporre, a meno di avere sul naso occhiali ideologici dalle lenti molto spesse e tanto distorsive.
© Riproduzione riservata