Il dato centrale del saggio del filosofo del linguaggio Marco Santambrogio, Il complotto contro il merito (Laterza 2022, pp. 220, €18) lo si ha nella Postilla. Là dove spiega “Dovevo sostenere che una società giusta è meritocratica, ovvero che la giustizia esige che i posti di lavoro e tutte le posizioni sociali siano distribuite secondo il merito […] Non mi ero proposto di mostrare, inversamente, che una società meritocratica è giusta, perché i principi meritocratici sono necessari ma non sufficienti a produrre una società giusta. […] Non ho definito che cosa intendo per merito. Ho seguito il senso comune, che oltre al merito morale riconosce diversi tipi di merito, generalmente indipendenti dalle istituzioni sociali […]” (191).
Manca una definizione di merito
Ed è proprio per questo che, arrivati alla fine del volume, rimane un senso di dolceamaro per chi ritiene la meritocrazia come il migliore dei mondi possibili. Con tutti i suoi inevitabili, ma correggibili, difetti. Anche perché scrivere un saggio sul merito senza dare una definizione su cosa si intenda per merito è un po’ come scrivere un saggio sul terrorismo rinunciando a spiegare cosa si intende, e cosa intende la dottrina, per “terrorismo”.
Certo: sono termini di difficilerrima definizione. E tuttavia, usare termini di lavoro ben definiti è necessario per capirsi. Ed è a mio avviso il punto di partenza per ogni riflessione scientifica. Specie se si è, come Santambrogio, un raffinato filosofo del linguaggio, già socio fondatore della Sifa (Società italiana di filosofia analitica) e della Esap (European Society for Analytic Philosophy).
La società spietata
La prima parte del lavoro di Santambrogio, intitolata provocatoriamente La società spietata (17-112), descrive i princìpi del pensiero meritocratico: l’dea delle carriere aperte ai talenti, l’uguaglianza delle opportunità di uscita, i posti e le posizioni che devono essere meritati. Qui la definizione di “meritocrazia” c’è.
Questa prima parte si ricollega in modo chiaro a un ficcante testo precedente di Santambrogio, Chi ha paura del numero chiuso? Dialogo tra un professore e una studentessa sullo stato dell’università, la competizione e la giustizia sociale (Laterza, 1997, pp. 170, €10) nel quale l’autore stigmatizzava appunto l’assenza di principio meritocratico all’interno dell’università italiana. La nostra università, sosteneva, produce semmai un livellamento farlocco dei voti di laurea verso l’alto, ostentando un buonismo verso gli studenti part-time e i fuori-corso ab aeternitas dannoso anzitutto per loro, e poi ingiusto per chi si laurea in corso. La sana competizione fra individui ne risulta bandita, in favore di una mala competizione fra baroni, baronati, famiglie, gruppi di potere.
L’istruzione al centro di tutto
Anche in questo saggio, dunque, Santambrogio pone l’accento sull’importanza della scuola e dell’istruzione. L’esempio qui proposto è quello della giovane “Elena, una ragazza di quindici o sedici anni”, “nata in una famiglia povera” ma dotata di ambizione e intelligenza e aiutata da una “brava insegnante” (17) che cerca di instradarla verso l’università. Qui, dice l’autore, una condizione necessaria affinché la “bravissima Elena” possa lavorare dopo la laurea è “che i posti di lavoro, le posizioni della società e diversi tipi di risorse siano distribuiti rispettando le competenze o, come anche si dice, rispettando il principio delle carriere aperte ai talenti. Sembra che sia stato Napoleone a formulare il principio così” (18).
Meritocrazia vs Antico Regime
Santambrogio ricorda, infatti, che prima della società meritocratica esisteva quella di antico regime, in cui “le posizoni di ogni tipo […] erano distribuite senza badare troppo alle competenze” (19) con chiaro vantaggio dell’aristocrazia (o meglio dire classe nobiliare, per non fare a cazzotti con l’etimologia). Anche perché se si fosse badato alle competenze si sarebbe dovuta ammettere una certa quantità di persone provenienti dalle classi non privilegiate, visto che “la capacità di ottenere buone competenze in qualche campo è diffusa e ben distribuita tra tutti i ceti sociali” (22).
Ma per ottenere ciò deve esistere una “uguaglianza delle opportunità” (24), a cominciare da un accesso all’istruzione gratuito, obbligatorio e universale, come imposto già dalla rivoluzione francese, poi da Maria Teresa d’Austria (e, aggiungo io, Federico II di Prussia), infine stabilito dall’art. 34 della Costituzione. Non basta: “oltre all’istruzione (importantissima) serviranno asili nido, cure mediche, congedi per i genitori, servizi di ricollocazione per chi ha perso il lavoro e molto altro ancora” (27).
Da Nozick a Young
Fissati dunque i tre princìpi cardine, in questa prima parte Santambrogio ripercorre la storia dell’idea di merito, dal filosofo libertario statunitense Robert Nozick, al filosofo del linguaggio americano James Conant – il rettore di Harvard che introdusse il SAT (Scholastic Aptitude Test) per rimediare al problema che gli studenti del prestigioso ateneo bostoniano continuassero a essere tutti “maschi, ricchi, bianchi, protestanti e della costa orientale” (46) – al sociologo inglese Michael Young, che inventò il termine “meritocrazia” e poi scrisse nel 1958 un famoso pamphlet, The Rise of the Meritocracy, 1870-2033. Si tratta di una brillante e paradossale reductio ad absurdum, in stile George Orwell, interpretato dai nemici della meritocrazia come la prova provata che la meritocrazia sia il peggiore dei mondi possibili, andando molto al di là delle intenzioni del suo autore. Di questo celebre saggio di sociologia utopistica, Santambrogio offre un’analisi dotta, contestualizzata e realistica, distinguendo il vero pensiero di Young da quello del suo personaggio immaginario (47-59).
Una risposta a Michael J. Sandel
Il testo di Santambrogio pare tuttavia scritto quasi in risposta al saggio di Michael J. Sandel, The Tyranny of Merit. What’s Become Of The Common Good? (2020) tradotto in italiano per i tipi di Feltrinelli col titolo La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti (2021, pp. 288, €20), di cui cita ampi, amplissimi stralci. Ma Santambrogio sbaglia nel non premettere che Sandel scrive un saggio totalmente calato nel perimetro sociale statunitense, dove la meritocrazia ha raggiunto – almeno dagli anni ’60 – un livello di rigore e di pervasività da avere ecceduto nella creazione di situazioni parossistiche. E forse questo può anche spiegare una parte dei populismi esplosi negli ultimi anni nella terra a stelle e strisce. Andrebbe anche chiarito, e Santambrogio non lo fa, che Sandel non attacca il concetto di “merito”, ma esamina come fondarlo in maniera moralmente corretta.
L’opposizione fondamentale di Sandel è che l’idea di merito stessa origina una società competitiva, per nulla inclusiva, in cui chi ha talenti si gode il successo con arroganza e chi non li ha si sente umiliato.
E’ qui che, a mio parere, Santambrogio avrebbe dovuto sottolineare come l’opposto di “merito” non è “inclusione”, bensì “demerito”. Una scuola (un’università, l’intera società) può premiare il merito di chi ha competenze e talenti e, allo stesso tempo, essere inclusiva di chi ha disturbi dell’apprendimento, della concentrazione, delle capacità fisiche o intellettuali. Uno studente di medicina che soffre di morbo di Parkinson non potrà forse mai esercitare come chirurgo, ma potrà essere un brillante ricercatore in grado di scoprire una cura al morbo di Parkinson o a qualunque altro male, in virtù della scuola pubblica, gratuita, universale e obbligatoria e di rette universitarie azzerabili da borse di studio per merito. Invece Santambrogio si perde nell’associare alla critica di Sandel le richieste del “6 politico” del movimento del ’68 o la sempieterna “Lettera a una professoressa” di Don Milani.
Antologia dei pensatori contro il merito
Nella seconda parte, La meritocrazia dal volto umano (113-190), Santambrogio riprende ancora Sandel, Young e aggiunge Rawls e Hayek, fra gli altri, per tentare di rispondere alle loro critiche. Il punto di partenza è la teoria aristotelica per la quale “la giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che merita. Tuttavia, anche qui le argomentazioni dell’autore convincono poco, come quando in più punti riconosce che le critiche degli anti-meritocratici non avrebbero risposta valida.
Per esempio, Santambrogio sostiene che la critica più profonda alla società meritocratica sarebbe quella di Young quando dice che “In una società che attribuisce tanta importanza al merito, è duro essere giudicati privi di merito” (177) e sostiene che “non c’è una vera risposta a questa constatazione amara”. Ohibò, a me la risposta viene subito alla mente: e quanto duro, quanto amaro sarebbe essere giudicati colmi di merito dalla società, e però vedere le posizioni più prestigiose e meglio retribuite assegnate invece per nepotismo, clientela o diritto nobiliare?
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