Nella sua descrizione sui social scrive che “aiuta le persone a fiorire”. Letizia Ciancio è una psicologa e coach professionista che interpreta dal suo punto di osservazione i fatti e i fenomeni della società. Lo ha fatto in maniera impeccabile anche nel suo ultimo libro, “Eligo ergo sum. Scelte e decisioni in un mondo complesso”, edito da Intrecci. Siamo realmente liberi di scegliere e realmente capaci di farlo in funzione di obiettivi che siano realmente nostri? Quanto siamo pronti ad ascoltare noi stessi e gli altri per arrivare a decisioni ottimali per la nostra vita? Si tratta di un testo utile “per srotolare la matassa e offrire strumenti utili a (ri)educare tutti noi, in particolare i più giovani, alla ‘nobile arte’ della scelta e della decisione e poter così essere effettivamente liberi di diventare ciò che siamo”.
Strettamente legato a questo aspetto è il Programma MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction), che Letizia ha avviato sabato scorso, 2 marzo, e che durerà 6 settimane. “L’idea – afferma – è quella di offrire un percorso strutturato per integrare la consapevolezza nella vita personale e professionale e ottenere risultati significativi da incorporare stabilmente, imparando a gestire lo stress, migliorando il focus mentale e riscoprendo una profonda connessione con sé stessi e con gli altri.
Molto spesso scelte e decisioni vengono utilizzati come sinonimi: eppure c’è una differenza importante.
Si, entrambe implicano un “separare”, ma in realtà si tratta di due momenti distinti e successivi e per comprenderlo basta osservarne l’etimologia. Scegliere deriva dal latino ex-, che indica “fuori”, “da”, ed eligere, che significa “selezionare”, quindi implica l’esprimere una preferenza tra le varie opzioni disponibili; gli sono sinonimi termini come selezionare, vagliare, setacciare. Decidere viceversa è formato dalla de- privativa e caedere, cioè “tagliare” , “cadere” e si colloca un istante dopo la scelta, perché implica risolvere, pronunciando un giudizio; gli sono sinonimi stabilire, concludere, fissare, deliberare, determinare. Nel primo caso quindi è in atto un processo di classificazione e valutazione, attraverso il quale dividiamo e organizziamo le opzioni in base a specifici criteri, soggettivi e oggettivi, che inducano delle preferenze in relazione a uno scopo; nel secondo caso si tratta di un “taglio”, una presa di posizione, un’azione (relativamente) definitiva che comporta l’esclusione di tutte le altre opzioni.
Quanto conta il contesto quando bisogna operare delle scelte?
Dipende. Le variabili in base alle quali valutiamo le opzioni e decidiamo cosa fare o non fare sono molteplici, e interrogano tanto elementi interni di tipo personologico (valori, credenze, desideri, personalità, età anagrafica…) e culturale/educativo, quanto elementi esterni di tipo ambientale. Tra questi vanno considerati sia aspetti più generali, riferiti alla cultura di appartenenza con i suoi valori e credenze condivisi, sia aspetti contingenti, riferiti alla specificità della situazione del momento in termini di complessità del tema, informazioni disponibili, tempo a disposizione, dinamiche relazionali tra i soggetti coinvolti, stato d’animo del momento ecc. L’impatto maggiore o minore del contesto nella presa di decisioni dipenderà quindi dalla specifica combinazione dei fattori, in relazione al tipo di decisione da prendere e a quali elementi questa tira in ballo. Per fare un esempio, se devo scegliere tra diversi atenei dove frequentare lo stesso tipo di percorso universitario, probabilmente gli elementi di contesto (reputazione dell’ateneo, facilità logistica, eventuali amici già presenti, dimensioni delle classi, ecc.) giocheranno un’influenza maggiore; se viceversa sono ancora nella fase della scelta tra un corso di studi e l’altro, probabilmente i fattori interni (interessi, stereotipi culturali, educazione famigliare, personalità, ecc.) giocheranno un ruolo più significativo rispetto a fattori esterni di tipo ambientale (prospettive future, logistica, costi, ecc.). Ovviamente, quanto più sono forti le spinte interne (es. la motivazione verso un dato argomento), quanto meno impatteranno eventuali spinte esterne e viceversa, quanto più deboli sono i valori e le motivazioni interne, quanto più sarò influenzato da aspetti esterni. Il tutto senza considerare l’elemento “tempo” e l’eventualità di un’urgenza nella presa di decisione, che renderebbe in ogni caso molto più probabile il ricorso a “scorciatoie cognitive” (euristiche) per risolvere la questione il più rapidamente possibile.
Come cambia la modalità di scegliere o decidere col mutare dell’identità?
Diciamo che in generale un indicatore di sviluppo psicologico risiede esattamente nella capacità di “differire la gratificazione”, vale a dire di rinunciare temporaneamente a qualcosa in favore di qualcos’altro che arriverà dopo. Si può testare il livello di questa capacità nei bambini attraverso la situazione sperimentale del “marshmellow” (Mischel, 1970): a un gruppo di bambini si offre la scelta da ottenere un dolcetto subito, oppure di ottenerne due, ma dopo 10 minuti. In generale in bambini al disotto dei 4 anni tendono a soddisfare immediatamente il loro desiderio, non avendo ancora sviluppato la capacità di concepire la durata dell’attesa, viceversa i bambini più grandicelli sono in grado di valutare il “costo” dell’attesa in relazione al “beneficio” della ricompensa. Del resto, gli psicologi sanno bene come un “livello di frustrazione ottimale” (Kohut, 1971) sia la chiave giusta, da calibrare di volta in volta in base all’età, per insegnare ai bambini ad effettuare delle scelte ragionate e non solo impulsive, imparando ad interrogarsi sui vari elementi che compongono il mosaico delle loro decisioni. Mano a mano che la personalità e l’identità si definiscono, attraverso le scelte e le decisioni prese nel corso degli anni, accumuliamo indicatori e strumenti che ci possono aiutare in questo difficile processo. Per questo, l’identità è al tempo stesso il risultato delle nostre scelte e la causa. Si tratta infatti di un processo circolare, cibernetico, che si aggiusta ogni momento in base agli effetti delle nostre decisioni. Oggi viceversa, complici un modello educativo spesso eccessivamente conciliante/protettivo e un sistema mediatico che valorizza l’idea illusoria di poter avere tutto subito e senza fatica, i ragazzi crescono senza l’esperienza minima della frustrazione (i famosi “no” che aiutano a crescere…), presentandosi al cospetto dell’età adulta senza la struttura, la chiarezza e la perseveranza necessarie a navigare la complessità attuale, esponendosi viceversa al rischio di sviluppare disturbi d’ansia o dell’umore.
Quanto un gruppo può influire su una scelta o una decisione?
Numerosi studi di psicologia sociale dimostrano l’estrema influenza che il gruppo esercita sulla capacità di giudizio individuale. Questo principalmente a causa della maggior rilevanza che riveste per l’essere umano, in quanto animale sociale, l’accettazione del gruppo e l’appartenenza. Il rischio di esclusione attiva meccanismi protettivi quasi automatici, che inducono ad adeguarsi al pensiero degli altri anche se palesemente sbagliato. Uno dei fenomeni più caratteristici dei gruppi è infatti la tendenza al conformismo. Naturalmente la pressione che un gruppo può esercitare su un singolo individuo dipenderà non solo dalla rilevanza che l’appartenenza a quel gruppo riveste per il soggetto, ma anche dalla sua personalità, in termini di valore maggiore o minore che questi attribuisce all’individuarsi piuttosto che al conformarsi. In ognuno di noi esiste infatti una costante “dialettica degli opposti”, in questo caso la dialettica tra il desiderio di appartenere/conformarsi e il desiderio di essere unici/differenziarsi. Adler parla di compresenza in ognuno di noi di “sentimento sociale” e “volontà di potenza” (cioè il potere di realizzare ciò che si vuole) ed è il modo assolutamente personale di gestire questa ambivalenza in relazione alle decisioni da prendere, che definisce il nostro “stile di vita” e struttura la nostra personalità, unica e inimitabile.
Scegliere e decidere in momenti di stress o di crisi è sempre complicato. Come si può ovviare a questo rischio?
Dagli studi sperimentali effettuati in contesti ad alto stress e rischio, come i reparti d’emergenza, risultano alcune considerazioni relativamente generalizzabili: innanzitutto occorre imparare a gestire lo stress, e su questo la mindfulness si è rivelata uno strumento potente e scientificamente validato nel rendere gli individui meno reattivi allo stress. La pratica costante della meditazione di mindfulness ha mostrato infatti modificazioni strutturali a livello cerebrale: sono rafforzate le connessioni tra centri sottocorticali, deputati all’attivazione delle risposte emotive automatiche e aree della corteccia deputate all’elaborazione cognitiva degli stimoli, quindi alla regolazione delle emozioni. Ciò significa una migliore risposta agli eventi improvvisi e potenzialmente stressanti. Inoltre ha mostrato una maggiore connessione tra i due emisferi, che implica una migliore capacità di analisi del contesto e ricerca di soluzioni. Questo tipo di pratica, cioè, desensibilizza a monte rispetto agli stressor e attiva risposte più ragionate. Sul piano individuale, inoltre, l’intuito si è rivelato un buon alleato, purché nel gruppo vi sia un buon clima di cooperazione. Ove questo non sia presente, il timore del giudizio prevale sull’intuito, impedendo di mettere in campo idee potenzialmente efficaci. Vediamo quindi come lo stress agisca certamente da fattore di rischio in termini di efficacia delle scelte e decisioni, ma che si possa arginare sia agendo sul piano individuale con pratiche come la mindfulness, sia agendo sul gruppo affinché vi sia un positivo clima di collaborazione che permette la ricerca cooperativa di soluzioni vincenti.
In che modo il coaching può essere una risorsa per scelte e decisioni consapevoli?
Il coaching è un dispositivo piuttosto strutturato e relativamente facile da usare e permette di far luce, attraverso un processo ben definito, su tutti gli elementi che entrano in gioco nelle scelte e decisioni. Il processo parte dalla definizione di un obiettivo (già questo implica una scelta e una decisione), che viene analizzato in termini di valore per il soggetto, di fattibilità e di indicatori di successo; quest’analisi permette di definire un obiettivo “smart”, vale a dire specifico, misurabile, significativo e raggiungibile entro un tempo dato. Una volta definito l’obiettivo in questi termini, buona parte del lavoro è fatto. Si tratterà quindi di esplorare le risorse a disposizione, le eventuali resistenze o mancanze, per poi definire un piano d’azione finalizzato alla loro compensazione, in funzione del raggiungimento del risultato. Una volta ottenuto (o meno) il risultato, il processo avanza osservando cosa abbia funzionato o meno, e su questa base acquisire sempre più consapevolezza, non solo di ciò che conta per il soggetto, ma anche di come egli funziona. Tutto questo processo è costellato di scelte e decisioni, e al tempo stesso allena questo tipo di capacità e prassi. Lo scopo finale del processo, infatti, non è l’obiettivo in quanto tale, che rappresenta viceversa un mero espediente attraverso cui imparare a conoscersi e, con ciò, imparare a scegliere e decidere per il meglio.
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