D’un tratto si risveglia la polemica. È stato sufficiente un incontro tra il ministro Nordio e il presidente delle Camere penali Caiazza per scatenare un putiferio. Tema dell’incontro era stato, manco a dirlo, la annunciata riforma del sistema penale. Quella più spinosa e quella più roboante ma anche, infine, quella più attesa.
E in questo autentico mazzo da blackjack, tra le carte da scoprire, c’è di tutto, dal nodo delle intercettazioni (talmente facili da essere rivelate e diffuse che diventano una sorta di grande grigliata dove l’arte più usuale è mettere troppa carne a cuocere) allo sfoltimento dei reati, dalla rivisitazione della prescrizione, per rimediare alle fregnacce di Fofò Bonafede, alla drastica revisione delle misure cautelari, per finire, naturalmente, alla separazione delle carriere.
L’asso di cuori, il tema del secolo. Lo strumento che ridimensionerebbe lo straripante ruolo dei PM pareggiandolo, nel processo, a quello degli avvocati.
In verità non ci sarebbe molto da crederci perché, sebbene a carriere separate, c’è la sensazione forte che i giudici continuino a vedere i rappresentanti dell’accusa sempre come dei colleghi, (magari un po’ meno, come dei semi-colleghi), ma mai degli estranei come gli avvocati e quindi si protrarrebbe all’infinito quella sorta di condizionamento psicologico in favore dei PM che si riverbera soprattutto nella gestione della quotidianità del processo che è certamente uno degli aspetti più delicati.
E in verità un rimedio vero ci sarebbe, e qui apro una esplosiva parentesi. Sarebbe necessaria la laicizzazione totale della funzione di procuratore, come in America, con una designazione a scelta tra gli avvocati e con le misure di custodia cautelare sempre ammissibili solo previo vaglio del giudice. Ma questa ad oggi purtroppo è fantascienza giuridica e quindi non ne parliamo più.
Archiviata questa utopistica digressione e per tornare al tema, l’incontro con Caiazza ha scatenato l’Anm che ne ha dette di tutti i colori e si è messa cercare un intero mazzo di pagliuzze negli occhi del Ministro.
Che Nordio stia attento! E il perché ci accingiamo a raccontarvelo.
Quando si parla di riforma della giustizia la politica (sempre attenta ai massimi sistemi ma assolutamente distratta alle cose che toccano i cittadini) ha sempre pensato che gli unici temi e problemi di rilievo fossero la riforma del Csm e questa benedetta storia della separazione delle carriere.I due argomenti, al contrario, non sono compiuti e non esauriscono il problema di quel ramo delle funzioni dello stato destinato a distribuire sentenze.
Diversi anni fa, per esempio, fu messa in atto una riforma che sin da allora, ma soprattutto oggi che ne vediamo le conseguenze, poteva a pieno titolo essere considerata come una tra le più sciagurate e disastrose della intera storia della giustizia italiana. In parte già ne parlammo da queste colonne e ne avevamo iniziato ad affrontare l’argomento.
Erano gli ultimi giorni di agosto del 2011 quando Michele Vietti, avvocato e cattedratico, insediato sullo scranno di Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura dall’amico Pier Ferdinando Casini, lanciò un proclama che ebbe effetti devastanti: “Il riordino della geografia giudiziaria e la soppressione dei tribunali minori ci farà guadagnare 3 punti di P.I.L.”.
Erano i tempi della grande crisi economica che nel 2009 aveva appena investito il pianeta e lo spread era l’ansia di tutti i governi (compreso il nostro) che ogni mattina si affannavano a contare se avevano ancora tutte e 3 le A o no. La spending review era diventata l’ossessione di tutti i premier del pianeta compreso Berlusconi che guidava il governo, il IV di questo nome, anche perché il cavaliere era alla frutta e cercava disperatamente di resistere alle spallate della Merkel e di Sarcò distribuendo segnali a destra e a manca di efficienza e controllo dei conti.
E, sempre nel segno della riduzione della spesa, anche l’allora Ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, subentrato appena un mese prima al dimissionario Angelino Alfano, volle dare un segnale di efficienza e, seguendo la indicazione di Vietti, si affannò a presentare un decreto legge, convertito poi in una legge delega, che conteneva i criteri per la soppressione di numerosi tribunali. Era il 14 settembre del 2011 e la legge portava il numero 148.
Appena un anno dopo il Ministro Paola Severino, lanzichenecca nel governo Monti, il cui eponimo nel frattempo era subentrato a Palazzo Chigi nel tentativo di ridare credibilità al paese dopo i disastri dell’uomo di Arcore, varò il decreto legislativo 155/2012 con il quale furono cancellati 37 tribunali e 220 sezioni distaccate. “Una svolta epocale,” la definì la Ministra (talmente peggiore della storia che il suo mandato diventò una minestra neanche poi tanto scaldata). Il tema all’epoca fu scottante.
Epperò resta d’attualità ancora oggi e non solo perché alcuni studi come quello condotto da un noto giornale finanziario, bocciarono la riforma stimando tra quelli più efficienti d’Italia proprio quei tribunali la cui soppressione era in corso, mentre tra i più inefficienti vi erano quelli che avevano accorpato i territori dei soppressi. Vi è di più. Tra quelli efficienti figuravano, in quello studio, i quattro tribunali abruzzesi, di Avezzano, Lanciano, Sulmona e Vasto, la cui cancellazione era stata congelata per i problemi legati alla Corte d’Appello di L’Aquila, ancora precaria per il terremoto del 2009, e che era stata di volta in volta prorogata più per la pressione della politica abruzzese che per un disegno preciso. o per una presa di coscienza dell’errore fatto, da chi aveva nel frattempo governato il paese.
Quello dei tribunali abruzzesi era diventato uno strano caso e non solo per i continui rinvii della loro soppressione ma anche perché quelli superstiti, quelli cioè aventi sede nei capoluoghi di provincia, erano talmente vicini tra loro (L’Aquila e Teramo e Pescara e Chieti) e posti in maniera talmente sbilanciata rispetto al resto del territorio della regione che la stragrande porzione dell’Abruzzo sarebbe rimasta sguarnita di presidi giudiziari specie nella parte meridionale, a confine con zone ad altra infiltrazione criminale, e soprattutto in comprensori, come Sulmona per esempio, dove insisteva e insiste uno dei più grandi penitenziari d’Italia e ben presto tra i più importanti d’Europa.
A ciò c’è da aggiungere che di quel risparmio, del quale la politica aveva innalzato il vessillo, non si vide nulla, e l’efficienza del sistema giustizia era rimasta una pia illusione. Per le quattro sorelle abruzzesi gli anni scorrevano e di proroga in proroga la loro sopravvivenza veniva garantita, mentre la sensazione che tutta l’operazione soppressione tribunali fosse stata una grande cavolata cominciava a serpeggiare forte tra le coscienze innanzitutto della politica che, fino a quel momento, era rimasta latente e silente.
Con l’avvento del nuovo corso del governo Melonista, e con l’avvento di Nordio al ministero di Arenula, d’un tratto sembrava che la politica avesse avuto un sussulto d’orgoglio e che si volesse in qualche modo, grazie a fasce trasversali di parlamentari abruzzesi e a sottosegretari e viceministri di via Arenula, rivisitare tutto l’impianto della soppressione, partendo proprio dalla regione del Gran Sasso e della Maiella, per vanificare una riforma che, alla faccia di quell’epocale di Severiniano verbo, era risultata una gran…(la decenza ahimé mi impone un altro termine)…fesseria.
Il primo step immaginato dai nostri era l’inserimento, nel mille proroghe del dicembre 2022, di un ulteriore rinvio di tre anni della soppressione dei tribunali abruzzesi per avere il tempo di ripensare e riprogettare tutta l’operazione.
Nei territori interessati si iniziò a festeggiare con lo stesso entusiasmo con il quale i viaggiatori del west, con i carri disposti a cerchio, festeggiavano l’arrivo del 7° Cavalleggeri che disperdeva l’assedio orchestrato dagli Apache.
Manco il tempo di brindare con una pinta di birra che, come per magia, nel milleproroghe il rinvio diventa di un anno e non di tre. Che cosa sarà mai successo?
Ovviamente ognuno ha dato alla vicenda la interpretazione meno dolorosa alternandosi tra “un mille proroghe non può contenere rinvii di tre anni” e tra “un rinvio lungo sarebbe stato visto con sospetto”. La verità forse potrebbe essere un’altra.
Perché di questa storia dei Tribunali minori i giudici ne parlavano da tempo, anzi, loro ne stavano parlando da decenni.
Solo che nella prima repubblica c’era una politica che governava la grande finanza e anche gli apparati amministrativi dello stato. Le repubbliche successive invece ( la seconda e l’attuale terza) sono state, ahimè, dominate dai poteri economici e tiranneggiate da quelli tecnocratici (vedi i disastri dei governi tecnici).
Dalle parti del Palazzo dei Marescialli invero hanno sempre avuto in testa l’idea che un giudice non dovesse saltare dal civile al penale, dai divorzi ai decreti ingiuntivi, dai pignoramenti immobiliari all’ordinanza di custodia cautelare da comminare nell’udienza preliminare.
Questo cambio continuo di materie era robaccia da avvocati e non una palestra ove cimentarsi in esperienze nuove ed allargare il proprio scibile giuridico. Non era una opportunità formativa ma piuttosto un faticoso fastidio a cui dare rimedio. E venne fuori il concetto tutto particolare di efficienza legata ovviamente a quello di specializzazione. Si pensò quindi che i tribunali ideali fossero quelli composti da un numero tale di giudici (oltre una trentina) da permettere a ognuno di essi di dedicarsi ad un pezzettino della scienza giuridica e pronunciare ed emettere sentenze con i container (tanto sarebbero state tutte le stesse: solo da cambiare, con il copia/incolla, i nomi delle parti) e fare quello per tutta la vita.
Insomma la famosa riforma Severino, figlia della legge Nitto Palma, ministro del Governo Berlusconi non fu altro che un atto di ossequio alle esigenze, forse è meglio dire i capricci, dei magistrati e affatto un intervento per migliorare l’efficienza della giustizia.
E fa niente se una tale riforma avrebbe creato solo delle megalopoli giudiziarie che avrebbero investito il cittadino con una agilità elefantiaca, fa niente se si sarebbero create delle cattedrali nel deserto distanti mille miglia dal paese reale, fa niente se un povero sventurato, per muoversi all’interno di tali alveari di giudici e cancellieri, avrebbe avuto bisogno del navigatore e del GPS, fa niente se interi territori della penisola sarebbero rimasti sguarniti di presidi giudiziari ancorché fossero all’interno, o adiacenti, a zone ad alta densità criminale, fa niente se aree che ospitavano, e ospitano, carceri importanti e ad alta sicurezza, si sarebbero trovate all’improvviso sguarnite di uffici giudiziari esponendosi ai rischi di lunghi e pericolosi trasferimenti per permettere a temutissimi detenuti di partecipare alle udienze.
Ma dalle parti di via Arenula non la hanno pensata così, anzi, di tali considerazioni non gliene può fregà di meno (ci si perdoni il francesismo). Come si dice dalla mie parti “se sta bene Rocco, sta bene tutta la Rocca”.
E già perché noi pensiamo che la politica la facciano i politici ma non sempre è così e soprattutto non è nella vicenda che ci stiamo occupando. Perché nel Ministero di Grazia e Giustizia la tecnocrazia è rappresentata tutta da magistrati, distaccati dalle loro sedi e funzioni, inseriti come un braccio armato di una setta segreta (sì proprio come il Priorato di Sion di Dan Brown) a fare gli interessi e i desiderata della loro corporazione.
Ecco dov’è l’inghippo ed ecco dove è nata l’iniziativa della soppressione. Ed ecco dove c’è la maggiore resistenza a che la riforma Severino sia vanificata. Se i famosi tre anni di rinvio son diventati uno e se l’idea di rivisitare la Severino, non solo per non chiudere i tribunali abruzzesi ma addirittura per riaprirne diversi già chiusi, naufraga tra i corridoi di un palazzo delle nebbie la volontà orchestratrice è da rinvenire tra i tecnici (giudici) del Ministero di Grazia e Giustizia.
Essi non resteranno mai sordi ai richiami dei loro colleghi seduti sugli scranni dei Tribunali; non resteranno mai sordi a un Gratteri, che di questa storia ne sa davvero poco, ma che non si è risparmiato nel lanciare stilettate non solo per scongiurare la riapertura di tribunali già chiusi ma addirittura per proporne la chiusura di ulteriori allargando l’originale perimetro dei tribunali soppressi; non resteranno mai sordi alle parole della Presidente della Corte d’Appello di l’Aquila, Fabrizia Ida Francabandera che, in occasione della cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario abruzzese 2023, ha auspicato la immediata chiusura dei quattro tribunali abruzzesi e ha dichiarato che è meglio così perché in essi la “qualità delle sentenze e delle pronunce è sicuramente inferiore a quella dei quattro tribunali provinciali che sarebbero rimasti aperti”.
La soppressione dei tribunali è uno scempio che parte da lontano ed è alimentata da lontano, che vessa e tiranneggia le popolazioni e crea un disservizio alla amministrazione della giustizia. Una pubblica amministrazione che dovrebbe andare verso il cittadino e non dovrebbe obbligare il cittadino a rincorrerla. Non lo diciamo noi lo dice l’art.5 della Costituzione quando recita che la Repubblica “attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo”.
Una norma voluta dalla componente socialista della Assemblea Costituente.
Appunto!
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