L’imbarazzante presidential debate trasmesso sulla CNN tra Joe Biden e Donald Trump, la cui età sommata raggiunge i 159 anni, ha sollevato in me profonde preoccupazioni riguardo allo stato di salute della democrazia non solo americana. Se la leadership di un paese cruciale per gli equilibri geopolitici mondiali, al quale l’Occidente libero ha sempre rivolto lo sguardo positivo da quasi ottant’anni, è contesa tra un bugiardo cronico sotto processo e un anziano – pur galantuomo – palesemente unfit e disorientato, allora è necessario porsi delle domande molto serie.
Gli analisti e i media si dicono “scioccati” a tal punto che sul New York Times Thomas Friedman ha scritto lapidario
E non si poteva essere più chiari di così.
Ma gli stessi media così come il resto della politica americana dapprima mettono in scena una “performances” desolante utile solo alla televisione per i profitti della televisione; e poi falsamente stupiti scoprono l’acqua calda visto che il “crack” politico statunitense era evidente a occhio nudo da molto prima anzitutto per ragioni anagrafiche.
Possibile che democratici e repubblicani non abbiano una classe dirigente matura e strutturata capace di ambire alla Casa Bianca? Dove abbiamo sotterrato quei dibattiti spumeggianti di un tempo, quando gli Stati Uniti potevano vantare una “differenza sostanziale rispetto alle gerontocrazie sovietiche del passato, offrendo alla storia candidature di medio-alto calibro in entrambi i partiti; che sentivano la gravitas dell’ufficio esercitato una volta eletti? Il livello del dibattito (dal test cognitivo di Trump fino alle encomiabili vittorie ai tornei di golf come accredito presidenziale passando per le pause o le frasi sconnesse di Biden nei suoi ragionamenti) evidenzia il degrado a cui sono giunti gli americani, che si piegano all’analisi sul tasso di lucidità dei suoi candidati. Di conseguenza, scegliere chi è meno debole o semplicemente più lucido dal punto di vista mentale ci mette di fronte a un momento storico di “depressione” (forse anche clinica, certificata dai dati) della stessa società americana, che non ha più voglia di essere né first né tantomeno iconic per se stessa e per il resto del mondo.
Questa penuria di idee e di persone oltre atlantico può paradossalmente incidere positivamente sul nostro immaginario, suggerendoci quanto forse abbiamo sovrastimato un modello di “dream” più cinematografico che reale, a scapito del nostro stesso sogno europeo, rimasto nell’ombra e che andrebbe rivalutato. Se ci pensassimo più europei avremmo più senso di noi stessi, ci ameremmo di più nelle nostre peculiarità nazionali, vedremmo nitidamente la gerarchia delle questioni e lasceremmo in fondo i nostri provincialismi. Finché non facciamo questo salto culturale e politico, ci sentiremo sempre dei malavoglia dentro una casa che sentiamo estranea, mai abbastanza nostra e ospitale. L’orizzonte europeo è un cantiere aperto, non facile e spesso sul filo dell’implosione. La nostra Europa fronteggia – a colpi di shock globali – sfide impegnative e drammatiche. Ma essere all’altezza di un tempo incerto, con gli Stati Uniti sull’orlo dell’heartbreaking e l’avanzata delle autocrazie ad Oriente, è la sfida dell’oggi dell’Unione.
Sfida che Giorgia Meloni, molto capo partito e poco capo di governo, non ha propriamente colto in questa fase.
© Riproduzione riservata