BLOG

“Stranizza d’amuri” e di regia

Insegnante, giornalista e scrittore
“Stranizza d’amuri” e di regia

“E con una storia come questa del delitto di Giarre, in Italia avete tanto discusso di Matthew Shepard?” Forse il commento della consorte è stato il più azzeccato, dopo aver visto il film d’esordio di Beppe Fiorello, Stranizza d’amuri. Un film che c’è e si sente, un film necessario e utile, per quanto doloroso e acerbo nella sua messa in scena registica.

Qui si racconta infatti del famoso “Delitto di Giarre”, contro Giorgio Giammona e Antonio Galatola, nel film ritratti come due carusi (ragazzini) siciliani colpevoli, agli occhi dei loro familiari e dei loro compaesani, di essere “puppi“, finocchi. Il crimine dell’odio omofobico suscitò una reazione profonda nella parte migliore della società siciliana e diede impulso alla fondazione del primo circolo Arcigay, messo in piedi a Palermo appena un mese dopo la morte dei due giovani.

La realtà, ahinoi, fu molto più cruda dell’edulcorazione filmica: i due, che avevano 25 e 15 anni, vennero uccisi a colpi di fucile, ma l’assassino non fu mai trovato. A un certo punto parve accreditarsi la pista del nipote tredicenne (e non imputabile) come colpevole. Il ragazzino raccontò perfino di essere stato costretto dalle due vittime a sparare nella consapevolezza che i due picciotti non avrebbero mai potuto vivere il loro amore alla luce del sole. Tutto sommato Fiorello ha saputo rendere bene il senso di vergogna e di umiliazione e di terrore dei pettegolezzi che spingono le famiglie dei due ragazzi a passare dall’amore familiare all’esigenza di sopire le voci e i pettegolezzi di paese creando le condizioni per la uccisione dei propri figli adolescenti. Davvero ben recitata e agghiacciante la frase con cui Lina, la mamma di Gianni, stiletta il figlio a tradimento fra le quattro mura di casa: “il più bel regalo che puoi fare al tuo amico è sparire”.

La pellicola ostenta un paesaggio antropologico imbevuto di quella mascolinità tossica da padri-padroni a gogò, mista a odio, ignoranza, paura del diverso, integralismo religioso, e mentalità provincial-campagnola-meridionale chiusa come il culo di una gallina vergine. Il regista decide di riempire la sua narrazione di figure latrici di questa mentalità, rappresentata ora in chiave bozzettistica e macchiettistica negli scioperati del bar centrale del paese, dove le gerarchie sono para-mafiose e virili a un livello neanderthaliano, oppure con maggiore credibilità nella rappresentazione di questi padri-padroni irsuti, dai folti capelli arruffati, dalle barbe selvagge che, da bravi màsculi coi coglioni, vanno a caccia, impongono ai figli (che “ce l’hanno ancora moscio”) di andarci. Così, nelle campagne bruciate dal sole e povere anche di erba, li fanno sparare e uccidere esili coniglietti con enormi fucili che prolungono il dominio del cazzo siculo. Il maschio domina, la donna cucina, pulisce, apparecchia e sparecchia. Il maschio è padre, e il suo compito è forgiare altri futuri padri, in un circolo della vita che guai a metterlo in discussione.

Il film regge e va visto al cinema. Va visto al cinema come atto militante, per omaggiare la memoria dei veri Giorgio e Antonio. Ma va visto al cinema anche per godere appieno della bravura recitativa di tutto il cast, a cominciare dai due protagonisti, l’immenso Gabriele Pizzurro, nei ricciolosi e teneri panni di Nino Scalia, e Samuele Segreto, aitante “pony” della scuderia di “Amici” di Maria De Filippi. Va visto al cinema anche per la elegante colonna sonora d’autore, che pesca sì in canzoni famose, ma anche in musiche d’antan che contribuiscono non poco a calare lo spettatore nella giusta dimensione spazio-temporale.

Stranizza d’amuri ha anche il pregio di non essere prodotto e recitato dalla compagnia di giro di Edoardo Leo & Massimiliano Bruno, che ormai imperversa al ritmo di quattro flm l’anno in tutti i nostri cinema, al punto da far pensare che in Italia, oltre a mancare i figli, manchino anche gli attori che non siano Leo & Bruno. Fiorello sceglie anzi degli attori che non avrete mai visto prima, con l’eccezione delle splendide Fabrizia Sacchi e Simona Malato e il sufficientemente credibile sorriso di Samuele Segreto. Volti nuovi, freschi, originali, realmente siciliani, che trasmettono la mentalità di un entroterra siculo addirittura fastidioso nella sua atavica arretratezza, nella sua mancanza di tutto.

Guardando il film mi sono reso conto di quanto semplice deve esser stato trasporre i panorami e le case di oggi al 1982, quando il film è ambientato, perché di fatto l’entroterra siculo è un buco nero dove tutto è rimasto sempre uguale a se stesso, incapace e nolente di evolvere, di emanciparsi, di cambiare, di migliorare. Non una strada provinciale rifatta, non un caseggiato ridipinto, non un pannello solare che sia uno, nemmeno in lontananza. Devi solo togliere le automobili di oggi e sostituirle con un po’ di Fiat Cinquecento e Renault 4 anni ’80 e sei a posto.

In un modo forzato, Fiorello tiene sullo sfondo, come espediente narrativo, i campionati mondiali di calcio del 1982, anche se il Delitto di Giarre fu del 1980. Mi pare una ingenuità grossolana: il calcio, e soprattutto i mondiali dell’82 sono davvero una cornice didascalica per trasmettere il concetto di un intrattenimento nazional-virile-popolare. Mi ha invece convinto il modo garbato e in punta di piedi con cui i due adolescenti scoprono, giorno dopo giorno, se stessi e il loro amore adolescenziale. Un amore che non osa (o forse non sa) nemmeno dire il suo nome. Il cespuglio di riccioli di Nino cerca e incontra il tirabaci di Gianni con una naturalità, una discrezione, una dolcezza davvero credibile e verosimile per una storia ambientata a inizio anni ’80 in quella sorta di Afghanistan in minore che è questo angolo di Sicilia.

Ci sono, ahimè, vari errori di produzione: i cartelli pubblicitari degli anni ’70 esposti all’esterno dei negozi sono tutti belli nuovi di zecca, mentre avrebbero dovuto essere arrugginiti e rovinati in quanto baciati dal sole siciliano da diversi anni. Uno dei due protagonisti è ripreso mentre fa il bagno con un paio di mutandine bianche coi fiorellini e quando esce ha un bel costume da bagno verde. Il ciclomotore Sì Piaggio che è usato in tutto il film è un modello rivisitato che sarebbe uscito dopo il 1982. Sarebbe stato necessario ripulire il ciglio della strada percorsa dai due picciotti in sella al motorino, mentre si nota immondizia di plastica lasciata da qualche incivile del XXI secolo, di prodotti che nel 1982 non esistevano nemmeno.

°°°SPOILER°°° Migliorabile la regia: la scena finale del film opta per un primo piano del Sì dopo che i ragazzi si sono addormentati per un bagno riconciliatore nel loro luogo ameno (un laghetto) e lo spettatore sente due colpi di fucile sullo sfondo, lasciandolo così con l’incertezza che sia stato un omicidio-suicidio e non un doppio assassinio. Ho trovato poi appesa la figura di Totò, il bambino di casa, che gode di uno spazio ampio come se fosse destinato a un ruolo finale maggiore, e poi invece non è così.

Molto ben costruite e recitate le scene in cui la mamma di Giorgio telefona alla mamma di Nino per dirle, al modo omertoso siculo, che su suo figlio Giorgio ormai “girano già tante voci, ma se lei vuole salvare Nino fa ancora in tempo, basta evitare di farlo uscire con Giorgio”. Convincente la scena in cui il padre e lo zio di Nino rinchiudono Nino in una specie di cella del loro casolare, con la mamma e la sorella che vorrebbero farlo uscire perché temono che i due uomini di casa lo vogliamo ammazzare per aver scoperto la sa relazione con l’altro ragazzo. Bella (mostruosa, ma bella, molto ben girata e recitata) la scena in cui i parenti di Nino, dalle campagne, raggiungono in auto il paesino di Giorgio per picchiarlo duramente proprio davanti al bar del paese, sfidando il senso di orgoglio campanilistico di questi laidi perdigiorno che sono combattuti fra il difendere il “loro” compaesano dalle grinfie dei “forestieri”, e il lasciare che il “puppu co’ bullu” riceva il fatto suo dalla squadraccia etero.

Significativa e quasi filosofica, poi, la frase del cugino che vive in una roulotte vicino alla cascina del padre di Nino, personaggio di cui sappiamo poco e niente, se non che si bulla di essere sempre in mezzo alle fimmine, ma poi esce abbracciato a due turisti americani, un lui e una lei, in un chiaro atteggiamento lascivo e bisessuale e che, infatti, dà il motto della Sicilia di ogni tempo sulle questioni di sesso: “Quel che fai di nascosto, lo puoi fare per 100 anni”.

Va detto che il film è tratto dal romanzo di Valerio La Martire, Stranizza, che però non viene citato nei titoli di testa e questo ha portato a un conflitto fra lo scrittore e la produzione del film, al punto da averne chiesto il ritiro dalle sale. Peccato.