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Sul concordato preventivo non siamo concordi

Giornalista e Docente
Sul concordato preventivo non siamo concordi

Al danno, anche la beffa: parliamo del concordato preventivo, un vero e proprio condono fiscale, mascherato sotto una denominazione più elegante. In sostanza, è uno scambio di favori tra il fisco — che doveva essere amico e finisce per essere paradossalmente un complice, un compagno di merende purché incassi due “spiccioli” — e un mondo sommerso che, semplificando,  dichiara 100, incassa 150, e si tiene tutto il grasso esonerandolo dalle tasse. È lecito definire questa pratica una “porcata” di proporzioni cosmiche? La risposta è sì: è una porcata, oltreché incostituzionale, in violazione palese dell’articolo 53 della nostra Carta fondamentale, che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. L’adesione al concordato — ci spiegano dal governo — è facoltativa, non vale ai fini dell’IVA e mette al riparo chi vi partecipa da futuri controlli. In altre parole, è un salvacondotto per chi, fatti i dovuti calcoli (lasciando a voi interpretare le motivazioni materiali e morali), versa al fisco un forfait con buona pace di chi paga tutta l’irpef alla fonte e si vede tassato tutto persino i premi di produttività. 

Ci permettiamo di non esseri concordi col concordato: ci avevano che con questo esecutivo sarebbe valsa la dottrina del “lasciar fare a chi fa”, ma si sono dimenticati di esplicitare il postulato implicito: “dipende da cosa si fa”. Ecco, il concordato preventivo è un’ingiustizia fiscale di prima grandezza, che si inserisce perfettamente in una lunga scia di sanatorie, condoni e bonus a pioggia, giustificati con l’alibi della complessità normativa. Si è voluto dipingere il “colpo di spugna” come un rimedio quasi doveroso, per restituire giustizia ai contribuenti costretti a destreggiarsi tra norme tributarie contorte e di difficile applicazione. Ma un sistema fiscale incapace di sanzionare i furbi, premiare i virtuosi e stabilire regole di equità e sussidiarietà non è degno di un paese civile.  

Se leggiamo questa determinazione – poi – alla luce degli ultimi dati del Centro Studi «Itinerari Previdenziali», relativi alle dichiarazioni dei redditi 2023, allora veniamo confermati nella nostra indignazione: la ricerca mostra con crudezza quanto sia consistente il pezzo d’Italia che non paga il dovuto, suggerendoci una questione cruciale se si vuole evitare che l’intero sistema paese imploda, laddove da una parte c’è chi non versa le tasse in misura proporzionale alle proprie capacità, ma dall’altra sfrutta comunque i servizi pubblici, a scrocco.


I numeri, purtroppo, non sono opinioni da lanciare al vento, ma dati che dovrebbero mettere la politica di fronte alle proprie responsabilità: ogni cittadino riceve in media 2.223 euro per la sanità, 1.322 euro per l’istruzione e 2.660 euro per l’assistenza sociale, finanziati dall’Irpef. Ma dall’altro lato, il 72% dei ristoratori dichiara un reddito medio di 12.800 euro, rispetto ai 39.700 euro di chi ottiene un punteggio Isa superiore a 8; il 70% dei meccanici dichiara 20.700 euro contro i 41.100 dei più affidabili; il 68% dei panettieri e il 66% dei macellai dichiarano rispettivamente 13.300 e 11.600 euro. Questi dati rivelano una marcata discrepanza tra i redditi dichiarati e quelli effettivamente realizzati, spesso riconducibile al lavoro nero o all’impiego di collaboratori non in regola.

Come si può non scandalizzarsi di fronte a un sistema tanto perverso e ingiusto? Come si può ancora parlare di “concordato”? In che termini? Su quali basi etiche ed economiche? 

E i cosiddetti “campi larghi” dell’opposizione? Ecco, su questo ho una risposta: sono tutti impegnati a contemplarsi l’ombelico.

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