Più passano i giorni, più cresce la confusione politica che anima l’attuale maggioranza di Governo, con Bonaccini che spalleggia Salvini sulle riaperture e quest’ultimo che loda Franceschini: un ossimoro. Come se non bastasse i 5Stelle si stanno disgregando in più correnti di quante il Pd e l’ex Dc messi insieme avessero mai sognato di generare; basti, infatti, pensare all’Italexit di Paragone, che conta per l’appunto solo lui. Nel frattempo, è stata affidata a Mario Draghi la gestione del Recovery Fund, sperando che riesca a fare ciò che in Italia è da sempre procrastinato, ovvero investire nel futuro. E la Politica? Ecco, per quest’ultima è giunto il momento dei cambiamenti.
L’estrema confusione dello scenario politico solleva infatti una serie di dubbi che possono essere sintetizzati attorno a un’unica grande questione di fondo: ci sono, finalmente, le condizioni affinché i moderati si riuniscano in un unico partito centrista, oppure la situazione attuale porterà i due partiti tradizionali più grandi (Lega e PD) a una convergenza verso il centro, costringendo così all’irrilevanza le pulsioni sovraniste presenti da una parte e quelle populiste dell’altra? Di fatto, ci si domanda se l’esplorazione delle praterie di centro avverrà per mano di un nuovo soggetto politico moderato oppure se sarà frutto dalla convergenza al centro dei grandi partiti ad ora esistenti. E in seconda battuta sorge poi un altro quesito; la legge elettorale che verrà, dovrà quindi essere una causa del dilemma precedente oppure una sua inevitabile conseguenza?
Il sistema maggioritario, ad oggi presente e modello di successo nelle elezioni di Sindaci e Presidenti di Regione, suggerirebbe di abbandonare l’idea di un centro moderato sensibile ai richiami di destra, tanto a quelli di sinistra; che tra l’altro rimanda a una versione 4.0 della politica dei due forni di andreottiana memoria. La storia di questi ultimi 30 anni, non ultimo il crollo del consenso del M5S, dimostra infatti come questo modo di muoversi non assicuri consenso nel tempo e anzi continua a mietere vittime politiche. Al contrario, sarebbe opportuno che la coerenza sui valori di fondo, avvertiti sia dall’elettorato della famiglia di destra, che da quello di sinistra, restino riconoscibili, così da poter assicurare una solida rappresentanza anche dal punto di vista elettorale.
Dunque, qual è la strada percorribile per i riformisti, i moderati e tutti i lib-dem italiani?
Con il Partito Democratico saldamente orientato alle scelte di ex comunisti come Zingaretti, Bettini e Orlando, la strada sembra essere già segnata. Il Partito democratico ha scelto, infatti, la linea più di sinistra, tornando all’ideologia ed abbandonando così la sua vocazione di elargitore di soluzioni di Governo capaci di intervenire nella società. In questo modo è tornato all’antico schema comunista, che per decenni è consistito nella demagogia, nella lamentela e nel raccontare la favola di come il mondo dovrebbe essere se si potesse ricominciare per magia tutto da capo; con i fidi alleati 5 stelle e Leu a fargli da coro. In altre parole, quello che si vede oggi è un Pd che torna PdS o peggio ancora PCI, come suggeriva qualche giorno fa, in un lapsus più o meno casuale, lo stesso segretario Zingaretti. Un partito che rinnoverebbe la sua presenza nel gruppo dei socialisti europei e che, molto probabilmente, avrebbe i numeri nel spostare quest’ultimo ancora più a sinistra di quanto non sia oggi.
Nello scenario sin qui descritto, per i riformisti è evidente la necessità di creare una nuova casa aperta, libera, femminista che potremmo creativamente chiamare Margherita 2. Ancorata nel Parlamento Europeo al gruppo di Renew Europe. Il progetto, seppur ambizioso, in realtà non è nuovo e ha già visto, anche recentemente, fin troppi tentativi di attuazione, i quali, purtroppo sono andati male sia per le eccessive aspettative che essi portavano con se, sia per evidenti difficoltà oggettive e per i numerosi errori commessi dei protagonisti a guida di tali operazioni. Protagonismo dei leader, difficoltà nel creare organizzazioni partitiche strutturate, democratiche e scalabili e, non ultima ma fondamentale, la drammatica carenza di risorse economiche, figlia di sciagurate rincorse al peggior populismo. A tutto questo si aggiunge una grande difficoltà nel costituire classe dirigente nei consolidati e imbrigliati scenari politici territoriali. Ma la giustezza del fine rende lodevole l’ennesimo tentativo recentemente riproposto anche a Milano, di una reunion lib-dem, con la speranza che questa volta abbia esito positivo e che riesca a non farsi schiacciare sul nascere dalle logiche elettorali delle elezioni amministrative che sono ben diverse da quelle politiche.
Tuttavia, lo scenario descritto, seppur abbastanza descritto dai giornali degli ultimi mesi, si scontra con i personaggi che incontro per strada e negli angoli più svariati d’Italia. Beppe Sala, Giorgio Gori, Dario Nardella, Rinaldo Melucci, Vincenzo De Luca, Stefano Bonaccini, Antonio Decaro sono persone che poco o niente hanno a che fare con le strane ambizioni di riportare in vita il PCI in salsa nuovo millennio. La cosa parrebbe ininfluente rispetto alla già scritta strategia del Pd, ma il “dettaglio” che costoro sono i veri portatori di voti del Partito Democratico dovrebbe suggerire a molti un’opportuna frenata riflessiva. Spesso, infatti, in troppi tendono a dimenticare che in democrazia i voti contano almeno quanto le buone idee e fa bene Antonio Decaro (nella sua recente intervista) a ricordarlo e a rivendicare un nuovo protagonismo degli amministratori anche nelle vicende politiche nazionali, per ristabilire un sano rapporto tra i cittadini, la politica e gli eletti.
Nella recente crisi di Governo chi ha gestito la fase politica per il Partito Democratico ha di fatto fallito, avventurandosi in suicide strategie figlie di antichi rancori e teorie ideologiche studiate a tavolino e lontane dal paese reale, dalla sua logica e dalla matematica. E a metterci la faccia per giustificare tale disastro sono sempre stati loro: gli amministratori locali, trascinati nella fossa dalle logiche partitiche nazionali.
Chissà se questi amministratori, che sono amati nei loro territori, riusciranno finalmente a parlarsi, a fare squadra e a sottrarre del tempo dal loro lavoro quotidiano per riprendere il progetto originario del Pd, che tutto voleva essere tranne un ufficio di collocamento per comunisti e demagoghi. Se, infatti, per una strada coincidenza astrale ciò dovesse avvenire, se poi tutti gli schieramenti prendessero atto, come esortava Veltroni qualche giorno fa sul Corriere, che la cosa che più occorre a questo Paese è la stabilità e la chiarezza del proporre agli elettori un chiaro programma di Governo, attuabile solo attraverso un sano sistema maggioritario, beh se tutto questo dovesse avvenire per i riformisti occorrerebbe fermarsi e domandarsi: ma prima di comprare una casa nuova, o di mettersi a costruirne una dal nulla, non sarebbe più semplice riportare all’antico splendore del 2014 quella già esistente? In fondo era cosi carina e non ci si annoiava mentre si cambiava l’Italia, si stava bene e, illuminati dai tanti risultati ottenuti dopo anni di buio, non stavamo neanche stretti, eppure eravamo in tanti: 11.172.861. Il famoso 40,81%.
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