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Truffe linguistiche in politica: “Responsabilità”

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Truffe linguistiche in politica: “Responsabilità”

Il termine “responsabilità” è, certamente, uno dei più frequentemente utilizzati in politica, soprattutto dal 2011 in poi. I politici si autodefiniscono “responsabili”, ai cittadini viene chiesto di essere “responsabili”, gli stessi programmi – a volte – vengono vagliati secondo il criterio della “responsabilità”.

Ma cosa significa, realmente, questo termine così usato e abusato? L’etimologia richiama il verbo latino respondeo che significa sia rispondere che presentarsi, costituirsi. Essere responsabili vuol dire, dunque, essere chiamati a rispondere di qualcosa. Affinché una responsabilità sorga (tanto in diritto quanto nel linguaggio comune), occorre cioè un soggetto capace, una “persona”.

Per “rispondere” di qualcosa, cioè, serve che vi sia qualcuno libero di compiere scelte e sopportarne le conseguenze. La responsabilità, nel senso tipico degli appelli politici, implica prima di tutto la libertà. Se la via è tracciata, non ho scelta. Se non ho scelta, come posso assumermi responsabilità o comportarmi responsabilmente? Inoltre, allo stesso modo, sarebbe necessario essere consapevoli. Se non si è adeguatamente informati riguardo premesse e conseguenze delle proprie scelte, come è possibile agire e/o scegliere in modo responsabile?

Ora, quasi sempre, quando un’autorità fa appello alla nostra responsabilità, siamo di fronte ad un tentativo di manipolazione. Questo, perché raramente, in simili circostanze, siamo davvero liberi e consapevoli. In effetti, spesso, ci viene chiesto di essere responsabili nell’accettare scelte altrui relative a contesti di cui sappiamo ben poco.

L’esempio più eclatante è l’appello al voto responsabile in passaggi elettorali potenzialmente impattanti su dinamiche di mercato. Ma l’elettore cosa sa delle complesse dinamiche che, a partire da una sua scelta, conducono a eventuali conseguenze dannose per la stabilità economica globale?

Vero che, nel linguaggio comune, il termine è spesso utilizzato come sinonimo di moderazione, assennatezza, giudizio. Ma è proprio qui che scatta la truffa evocata nel titolo. L’artificio retorico è quello di utilizzare ipocritamente il termine sfruttandone l’ambiguità. In che senso? Prima di tutto, declinando l’aggettivo nell’ultimo senso citato, si elimina anche il requisito della libertà.

Comportarsi in modo assennato o giudizioso, infatti, significa in questi casi comportarsi conformemente alle aspettative di chi detta le regole del gioco. Se, quindi, chi lancia l’appello ha voce in capitolo (o è molto vicino a chi ne ha) nel dettare le regole del gioco, la questione assume tratti grotteschi.

Infatti, se la condotta responsabile consiste nell’affidarsi alle indicazioni di una fonte autorevole (o autoritaria) e non ad altre, il richiamo alla responsabilità, intesa in senso proprio, dovrebbe essere rispedito al mittente. Questo, poi, assume ancora maggiore importanza quando, come accade col voto, il nesso tra condotta e conseguenza è indiretto.

Prendiamo l’esempio dei mercati. Il discorso suona così: “Caro elettore, vota il partito che garantisce più stabilità, poiché la stabilità piace agli investitori. Diversamente, gli investitori sposteranno i capitali e andremo in rovina”. Ora, dal momento che tra il voto e la rovina ci sono gli investitori, la logica imporrebbe che l’appello alla responsabilità fosse rivolto a loro. Altrimenti, l’appello diventa un ricatto.

Avete presente? Scrittura il mio protetto nel tuo film, altrimenti qualcosa di brutto succederà al tuo cavallo preferito e avrai un caldo risveglio.

Dunque, se responsabilità deve significare, come spesso significa, scegliere l’opzione gradita a qualcuno che ha il potere di punirci in caso contrario, siamo di fronte ad una truffa. Sarebbe meglio parlare di obbedienza o di spirito di conservazione, ma non si fa così. Perché?

Semplice, basta tornare al significato proprio della parola “responsabilità”, che non è stato discusso per diverse righe inutilmente. Il gioco retorico è proprio imprimere una prospettiva alla narrazione pubblica per la quale la responsabilità (in senso proprio) ricada sugli elettori, sui lavoratori, sulle persone.

Gli appelli alla responsabilità, quindi, sono un ricatto ipocrita giocato sull’ambiguità del termine. Da un lato richiamano l’interlocutore ad agire conformemente ai desideri dell’oratore di turno. Dall’altra parte mettono in chiaro che, in caso qualcosa andasse storto, le conseguenze non potrebbero che gravare in capo all’interlocutore stesso (licenziamenti, tasse, prelievi forzosi, misure restrittive).

Voti “male”? Sul lavoro compi scelte sgradite al management? Finirai indebitato, perderai il lavoro! Poco importa se esiste una volontà terza che avrebbe modo di interrompere il nesso causale tra la prima condotta e il danno (gli investitori, un ente regolatore, il datore di lavoro stesso). Poco importa se quasi nessuno ha modo di capire autonomamente se e perché le proprie azioni dovrebbero comportare direttamente conseguenze nefaste.

Quindi, è necessario diffidare pesantemente di chiunque si spenda di continuo in appelli alla responsabilità: probabilmente è solo un lupo mascherato da pecora. Probabilmente (con le dovute, ma rare, eccezioni) è solo qualcuno che sta cercando di ricattare senza nemmeno avere la dignità di assumersi, come almeno facevano i protagonisti del film citato, la responsabilità della propria violenza.