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Un Filippi eclettico e postmoderno spiega come mai “siamo ancora fascisti”

Insegnante, giornalista e scrittore
Un Filippi eclettico e postmoderno spiega come mai “siamo ancora fascisti”

 

La trilogia sul fascismo dello storico Francesco Filippi vede in questo volume di mezzo, Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (Bollati Boringhieri, 2020, pp. 254, €12) il lavoro più avvincente. La prima parte del saggio affronta l’annoso tema, ma ancora meritevole di maggiore attenzione, della persistenza del “problema della continuità” fra regime fascista e Repubblica antifascista. L’autore intitola questa prima parte “Cosa non è stato tolto di mezzo”.

L’argomento fu iniziato dallo storico Claudio Pavone (lo stesso intellettuale che nel 1991 fu crocifisso dalla storiografia marxista per aver osato chiamare la guerra di Resistenza come “una guerra civile”) in diversi suoi scritti. Valuto il problema della “continuità” come un elemento fondamentale e delicato per cercare di capire quanto l’Italia sia stata toto corde fascista sotto Mussolini e quanto si sia adattata a un vento diverso dal 25 aprile 1945 in poi.

Su questo tema Filippi ostenta il suo ormai celebre eclettismo e parte dunque dalla diversa ricezione di un romanzo di fantapolitica (Er ist wieder da di Timur Vernes, del 2011) poi trasposto in film (Lui è tornato, regia di David Wnendt, 2015 a sua volta ispiratore della pellicola italiana Sono tornato, di Luca Miniero, 2018). I due film immaginano il ritorno in vita nel XXI secolo di Adolf Hitler e Benito Mussolini, rispettivamente in Germania e in Italia. Filippi sottolinea come il romanzo e poi il film tedesco abbiano suscitato un pandemonio di reazioni a Berlino, mentre il remake italiano sia passato molto più in sordina. Trae già da questo primo dato come i due Paesi vivano con enorme differenza di intensità anche solo l’ipotesi fantapolitica di un ritorno del Duce o del Fuhrer.

La parte più densa e importante del saggio di Filippi è nel secondo capitolo, “Provare a punire il fascismo” dove, citando leggi, disposizioni, articoli e altre fonti, lo storico narra di come – sin da subito – la Repubblica antifascista abbia dovuto mettere in secondo piano le possibili epurazioni dei fascisti dai gangli del proprio potere e poi abbia dovuto proprio rinunciarvi.

Da un lato il problema era l’impossibilità di sostituire i magistrati, i prefetti, i docenti universitari e di scuola statale, i manager della pubblica amministrazione e delle grandi aziende private con altri uomini non formati dal fascismo o che non avevano prestato giuramento al fascismo e in grado di condurre la macchina dello Stato o delle aziende come la Fiat. Scrive Filippi:

“L’insieme di questi provvedimenti fa sì che all’inizio degli anni cinquanta in Italia siano davvero pochissimi i detenuti per il reato di fascismo o collaborazione con il nemico. Per i pochi che ancora non sono riusciti a rientrare in questi plurimi provvedimenti di cancellazione della pena arriva, nel 1953, il decreto presidenziale numero 922-53, con il quale si concede l’amnistia ‘per ogni reato, non militare o finanziario, per il quale è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola o congiunta appena pecuniaria, oppure soltanto una pena pecuniaria’. Tra le varie esclusioni non figurano i reati politici che beneficiano in pieno del provvedimento. A dieci anni dalla fine del regime fascista e appena otto dalla liberazione, praticamente più nessun fascista dichiarato colpevole di reati anche gravi risulta in carcere. […] La volontà politica, piuttosto chiara, sembra quella di cancellare il prima possibile anche la memoria di quanto accaduto togliendo gli ultimi esempi viventi di una stagione complessa, a cui non si vuole tornare.” (88-89)

Dall’altro, la Repubblica, anche sospinta in questo dagli interessi politici statunitensi, si è data come obiettivo primario quello di arginare l’ascesa del pericolo comunista e sovietico, durante i primi anni della Guerra fredda.

Filippi sostiene che se l’obiettivo primario era quello di contrastare Mosca, questo lo si poteva ottenere anche adoperando i cervelli dello Stato che erano stati fascisti sotto il fascismo, e che ora dovevano dirsi antifascisti e però continuare nella propria lotta anti-comunista.

In questo capitolo è avvincente e pregna l’analisi sulla “Legge Scelba” del 1952. Si tratta della legge che diede una seminale definizione di cosa significasse “fascismo”, “apologia di fascismo” e di quale fosse il ruolo dello Stato e della Scuola pubblica nel dover spiegare alle giovani generazioni quanto il fascismo avesse combinato in termini di violenza, soprusi e terrore. Filippi riporta in modo molto puntuale l’annacquamento della Legge Scelba a partire già dal 1957, quando gli avvocati che difendevano alcuni fascisti si appellarono alla Corte Costituzionale riuscendo, in parte, a ottenere una sentenza di diluizione dell’efficacia della Legge Scelba, la sentenza 1/1957 pubblicata sulla G.U. del 30 gennaio 1957 n° 27 che recita: “L’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in un’esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista. Ciò significa che deve essere considerata non già in sé e per sé, ma il rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata dalla XII disposizione.” (93)

Ecco dunque che la sentenza, con questa parziale smentita del portato della Legge Scelba, rendeva molto più labile e nebulosa la possibilità per il magistrato di intervenire a sanzionare le manifestazioni chiaramente neofasciste in Italia. Motivo per cui, nel 1993, fu necessario ribadire il concetto con il Decreto Mancino, che intervenne in un’Italia che cominciava a essere multietnica e nella quale si moltiplicavano gli episodi di odio etnico o razziale da parte di nuclei neofascisti predicanti intolleranza e reati di odio contro ogni persona percepita come “diversa”. Qui va detto che Filippi (e lo stesso Decreto Mancino) mancano di sottolineare l’assenza nel dispositivo di legge di tutele nei confronti delle persone LGBTQ+, perché ancora nel 1993 il clima politico non era portato a riconoscere, fra i reati dell’odio, anche quelli contro persone di diverso orientamento sessuale.

Nella seconda parte del volume, intitolata “Cosa non è stato costruito” sono inclusi due capitoli molto differenti fra loro. Il primo, “Provare a comprendere il fascismo: filosofi, storici, scrittori” Filippi fa una disamina ancora di stampo storico e storiografico, riassumendo per grandi aree le classiche interpretazioni postbelliche del Ventennio, spaziando dalla storiografia al ruolo della scuola pubblica nel proporre lo studio del periodo. Da sottolinare qui quanto Piero Gobetti, appena alla fine di novembre 1922, avesse già colto lo spirito del fascismo e degli italiani alla faccia dell’atroce e celeberrima definizione di Benedetto Croce del fascismo come “malattia” o “parentesi”, definendo invece il fascismo come “l’autobiografia della nazione” e attribuendo non tanto a Mussolini e a Vittorio Emanuele particolari capacità “di padroni”, quanto agli italiani il loro “animo di schiavi” (114).

Il secondo capitolo, invece, “Provare a supoerare il fascismo: una cultura di massa antifascista?” cambia ambito disciplinare e diventa un abbozzo di critica cinematografica che si estende anche alle produzioni televisive. Qui Filippi offre una sezione interessante e valida nella sua brevità, ma con una capacità di sintesi forse un po’ troppo estrema. E’ però utile la presenza di una filmografia in coda al volume, che può funzionare come punto di riferimento per quei docenti che volessero mettere su un cineclub che presentasse i film italiani sul fascismo dal dopoguerra fino ai nostri giorni. Notevole anche il riferimento, quasi a mo’ di parentesi, sulla pietosa scena fra Indro Montanelli ed Elvira Banotti durante una famosa intervista tv del 1969 nella trasmissione L’ora della verità.

Viene fuori, nel complesso, il miglior saggio di Filippi della sua famosa trilogia sul fascismo. Rimane un libro eclettico e postmoderno che mette insieme campi disciplinari di diverso tipo: storia, storiografia, Italian Studies intesi come storia del cinema, critica cinematografica, critica televisiva. Mi rendo conto che questo può non garbare ai puristi dei libri di storia, ma è un po’ la cifra di Francesco Filippi quello di mescolare lenti dai diversi colori. A me, ha decisamente convinto.