Avevo 17 anni e ricordo di essere scappato dal cinema senza nemmeno finire di vedere “Schindler’s List”. Non potevo più sopportare di assistere alla rappresentazione straziante dell’orrore assoluto inflitto a coloro che Papa Wojtyla ci aveva indicato a chiamare “i miei fratelli maggiori”. Ero sopraffatto dalle emozioni e dissi a me stesso “mai più”. Due anni dopo, durante il quinto anno del liceo classico, mi ritrovai in un’aula in cui il tema della Shoah veniva semplificato da qualche commento sciocco. Le lacrime salirono agli occhi della mia insegnante di letteratura italiana mentre cercava di trasmettere gli orrori di quel periodo oscuro, e non ho potuto fare a meno di pensare: “Mai più”. Ricordo il momento in cui vidi Papa Joseph Ratzinger camminare lungo i sentieri silenziosi e inquietanti di Auschwitz. Si trovò di fronte all’abisso del male e mi stupii del fatto che invece di fornire risposte, pose a Dio una domanda spirituale: “Perché sei rimasto in silenzio? Perchè hai taciuto?”. Ecco, in quel momento profondo, ho sussurrato “mai più”. Nel 2008, quando i miei piedi toccarono la terra di Israele e le mie mani sfiorarono il Muro del pianto provai – come cristiano fratello minore – un profondo senso di gratitudine. Mettendo il mio biglietto di preghiera in una fessura insieme a migliaia di altri pellegrini, ho rafforzato il mio impegno contro ogni antisemitismo dicendo a me stesso “mai più”. Poi, nel 2011, diventato docente ho avuto il privilegio di visitare i campi di concentramento di Mauthausen e Dachau. Guardando negli occhi i sopravvissuti e ascoltando le testimonianze delle loro famiglie, nel mio cuore risuonò ancora una volta l’imperativo morale: “mai più”.
Queste parole, se pensate coerentemente, non sono di burro come direbbe la cantante Carmen Consoli ma portano il peso del granito e si nutrono di una memoria viva e di comportamenti conseguenziali. Sono parole nelle quali è in gioco la nostra dignità di generazioni che sono nate, cresciute e sostenute dai valori di libertà e democrazia. Se no a cosa servono le giornate della Memoria dell’Olocausto, le cerimonie di deposizione delle corone e i discorsi sul non dimenticare?
Oggi l’incarnazione del nazismo porta il nome di Hamas, un partito che tiene in ostaggio il suo stesso popolo sofferente e che si propone deliberatamente – citando quanto ha scritto lo storico tedesco Eberhard Jäckel sulla follia hitleriana – di voler uccidere, il più possibile e senza sosta sotto la responsabilità dei propri leader il popolo ebraico inclusi gli anziani, le donne, i bambini e i neonati con tutti i mezzi possibili. Sono i fatti di questi giorni oscuri e non un opinione. Trovo impensabile non solamente negarlo ma non è nemmeno tollerabile uno spazio per varie sfumature, sovrapposizioni, i tanti distinguo o le glosse di circostanza; e se nessun mondo libero ha avuto ambiguità per i nazisti di ieri nessuna democrazia libera dovrebbe averle per i nazisti antisemiti di oggi. La guerra di oggi è tra Hamas e Israele e non tra Israele e i palestinesi per quanto le due dimensioni si vogliono colpevolmente tenere insieme.
Ciò detto, Hamas non avrà il mio nome, non presterò il mio fianco e i miei passi nei cortei, pur consapevole del dolore vero per gli innocenti di Gaza che – tuttavia – dovrebbero chiedersi del perchè sono diventati scudi umani dai loro stessi sedicenti partigiani, da quei capi nazi-terroristi che se ne stanno nel loro esilio dorato, foraggiati da anni di finanziamenti internazionali obliqui e che costruiscono i loro bunker militari sotto gli ospedali e le scuole, con buona pace delle anime belle che sfilano in corteo.
Quindi non nel mio nome e senza il minimo dubbio dirò finché potrò: “Mai più nazismo, mai con Hamas, mai più, mai!
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