Il 22 aprile 2024 il Governo ha trasmesso alla Camera dei Deputati lo schema di decreto legislativo per il riordino del sistema nazionale di riscossione. Si tratta, in buona sostanza, del nuovo metodo di recupero di imposte e tasse con cui lo Stato centrale si aspetta di incassare meglio e di più rispetto al monte debiti intestato ai contribuenti italiani.
Insieme a quanto sopra, il Governo vorrebbe gestire meglio il magazzino fiscale con una rivisitazione dei procedimenti di discarico automatico (anche dettati dalle sopraggiunte prescrizioni di credito per inattività o l’errata attività di Enti impositori o del Riscossore). Leggendo lo schema normativo proposto per l’ottenimento del parere parlamentare, sulla scorta della delega legislativa n. 111/2023, ci si può accorgere del grande sforzo operato dal “legislatore targato Meloni” per mirare ad un sistema più snello, veloce e dinamico.
C’è, tuttavia, un grosso problema di strategia riscossiva riguardo al sistema di “riscossione concentrata” (ovverosia l’art. 13 dello schema normativo in questione che andrebbe ad eliminare del tutto le famose cartelle esattoriali per alcune materie d’imposta e tassazione).
È empiricamente riscontrabile che da quando sono state eliminate cartelle di pagamento per IVA, IRPEF, IRAP, IRES, con l’art. 29 del D.L. 78/2010, i fallimenti e le situazioni pignoratizie per i cittadini italiani sono aumentati: basti leggere i dati pubblicati nello schema legislativo trasmesso dal Governo alla Camera dei Deputati pochi giorni fa per rendersene conto.
Si tratta, ad onor del vero, di dati su macro-scala e non dettagliati nel micro delle situazioni valutabili. Tuttavia, le politiche pubbliche si basano sui dati statistici di grande dimensione per comprendere il trend di un fenomeno generato da una norma voluta in un determinato momento, contesto e per un certo fine.
Nella tabella n. 6 dello schema normativo predetto si può legge come, in termini di carico esattoriale affidato al Riscossore nazionale (Agenzia Entrate Riscossione a titolo di esempio), i soggetti falliti siano aumentati vertiginosamente nel blocco 2011-2017 (68,5%) rispetto al precedente 2000-2010 (30,9%).
È infatti nel secondo blocco pluriennale che il primo esperimento di “riscossione concentrata” (voluto con l’art. 29 D.L. 78/2010) ha fatto il suo ingresso in scena incisivamente considerando, oltremodo, che l’imposta meno recuperata è l’IRPEF (che pagano le persone fisiche). Cosa che, leggendo la tabella 2 dello stesso schema di decreto, balza agli oggi facilmente con un dato incredibile in aggiunta: il 95% di italiani (su 22 milioni e mezzo di contribuenti attivi) ha posizioni esattoriali debitorie inferiori a 50.000 euro su un montante di 15 milioni di cartelle esattoriali (dati al 2021 indicati dal Governo).
Allora, c’è una riflessione di fondo da fare: eliminare del tutto il sistema delle cartelle di pagamento (previ ruoli con affidamento in carico) potrebbe essere assolutamente nefasto per la riscossione nazionale con la beffa di incassare meno rispetto a ciò che lo Stato recupererebbe se non facesse fallire subito o non avvisasse immediatamente i procedimenti di esecuzione dopo la notifica dell’accertamento esecutivo e il successivo affidamento in carico.
Quanto sopra non significa agevolare chi non paga le imposte e le tasse nei tempi di legge, ma significa comprendere che la realizzazione di una politica pubblica non per forza si ottiene con uno strumento di riscossione concentrato al massimo e perciò colpendo immediatamente il contribuente.
Il motivo è duplice: se io Stato faccio fallire l’impresa o la blocco subito la notificazione dell’accertamento esecutivo da riscossione concentrata, non è detto che incasserò gli stessi soldi dall’asta e dalla liquidazione o dal riparto fallimentare. Anzi l’esperienza e i dati confermano che la maggior parte delle volte lo Stato sia da aste pignoratizie o fallimentari o da procedure di sovra-indebitamento non incassa neanche la sorte capitale.
Si badi bene ad un concetto: con il sistema di “riscossione concentrato” il cittadino italiano non riceverà più la cartella di pagamento dopo la notifica di un accertamento, ma subirà immediatamente pignoramenti o istanza di fallimento (salvo misure cautelari).
Sapete qual è il tempo medio di un fallimento in Italia? 7 anni (senza contare gli anni degli eventuali processi penali parallelamente).
Sapete qual è l’esito d’incasso nei fallimenti italiani? Nel 44 % è senza riparto (cioè senza niente da far incassare ai creditori). Quest’ultimi dati sono pubblicati nel dossier (n. 786/2023) “Le caratteristiche e la durata dei fallimenti e dei concordati preventivi” della Banca d’Italia.
In definitiva, ridurre i tempi di azione per il recupero di imposte e tasse a sessanta giorni rischia di essere, paradossalmente, un boomerang per le casse erariali.
Il motivo principale è semplice: se io consento al piccolo-medio imprenditore di riprendersi un po’ dopo il disorientamento economico-finanziario (dovuto a omesso pagamento di quanto dichiarato ad esempio) gli evito, nel medio breve termine, procedure da sovra-indebitamento o fallimenti o messa all’asta di beni a garanzia dell’impresa (e magari messi a disposizione di banche o finanziarie per avere l’anticipo pagamento dipendenti a fine mese).
A questo presidio di garanzia del “miglior recupero possibile” servono e servivano i ruoli e le cartelle di pagamento. Diversamente, come i dati dimostrano, un fallimento dell’impresa o un suo blocco funzionale per pignoramento dei beni a favore immediato dello Stato (dopo 60 giorni dalla notifica dell’accertamento) ha la propedeuticità di diventare una perdita anticipata per quest’ultimo quanto ad introito economico portando le risorse umane impiegate nell’impresa allo spiazzamento nel mercato (quindi nuovi disoccupati). A ciò si unisce un altro tipo di perdita: il mancato investimento a conto capitale “d’ingresso futuro e probabilmente certo” (su cui maturano interessi essenziali nel rapporto di credibilità finanziaria con l’Unione Europea) per le imposte e le tasse non riscossone. È su quest’ultime, poi, che si forma il debito pubblico virtuoso tutt’oggi (ovverosia quello che concorre alla vendita dello stesso in titoli di stato e nel mercato finanziario).
Potrebbe trattarsi di una riforma paradossale.
Sperando, ovviamente, di no nell’interesse dello Stato e dei milioni di contribuenti italiani.
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