Uno dei maggiori artisti del '900
Bob Dylan, al Maxxi di Roma la mostra del profeta riluttante che incendiò la ribellione
Bob Dylan pittore e scultore, Bob Dylan storico e critico musicale. Per ritrovare nel suo ambiente naturale, nei negozi di musica, il più grande autore di canzoni vivente, definizione precisa ma anche decisamente stretta per uno dei più principali artisti degli ultimi sessant’anni, bisognerà aspettare la fine di gennaio, quando uscirà il volume 17 delle sue Bootleg Series, con inediti di fine anni 90.
Intanto però è in tutte le librerie con La filosofia della canzone moderna, volume di lusso con 66 canzoni, alcune famose, altre ignote per chiunque non possieda la sua mostruosa cultura musicale: raccontate, interpretate nel loro significato profondo che c’è sempre, anche quando sembrano cosette leggerine come Blue Moon, usate come suggestione per lanciarsi in affondi imprevedibili a tutto campo. Il 16 dicembre poi invaderà il Maxxi di Roma con una mastodontica mostra retrospettiva dei suoi quadri e delle sue sculture: attività parallela alla quale l’ex Zimmerman si dedica sin dalla fine degli anni 60.
Si è disegnato da solo un paio di copertine dei suoi dischi e anche quella di una pietra miliare della musica popolare, Music from Big Pink della Band. Ha fatto dell’arte visiva una sorta di attività secondaria ma non troppo che ha ottenuto il dovuto risalto solo negli ultimi anni, con una serie di grandi mostre in giro per il mondo. Che dipinga, scolpisca o provi a fare cinema, come nella sua unica, grandiosa e fallimentare prova di regista, Renaldo e Clara, l’opera visiva costituisce un contrappunto a quella musicale-letteraria e insieme il diario di bordo di un artista nella cui opera si contano più fasi che in quella di Picasso. In sei decenni di carriera non si è mai fatto trovare dove il suo pubblico lo aspettava, in una sorta di sfida continua che a volte gli è costata cara. Ma alla fine e alla lunga a vincere è stato sempre lui.
La tournée mondiale del 1966, con la Band e il rock al posto del folk e della chitarra acustica, risulta essere la più fischiata di tutti i tempi. Stramaledire il marrano venduto era diventato lo sport preferito degli stessi giovani che sino a quel momento lo avevano eletto a profeta. Oggi quei concerti sono universalmente considerati tra i migliori di sempre. Quando, alla fine degli anni 70, Bob l’ebreo scoprì Gesù Cristo e i Born Again Christians neppure i più fedeli tra i suoi fan riuscirono a frenare delusione e disappunto. Ci sono voluti decenni per scoprire che negli anni del fervore religioso Dylan aveva scritto e suonato i migliori pezzi gospel moderni.
L’arte visiva, oltre al valore in sé, è fondamentale anche per seguire gli scarti improvvisi e le ridislocazioni imprevedibili di un artista che è sempre in movimento, anche nel senso proprio del termine: praticamente è in tournée continua dal 1988, con una sola interruzione di tre mesi nel 1997, per un’infezione al cuore. Il suo ultimo cd di inediti, Rough and Rowdy Ways, del 2020, è arrivato al primo posto nelle classifiche di una dozzina di Paesi, regalandogli un altro paio di record, oltre ovviamente a quello di unico scrittore di canzoni mai insignito del Nobel per la Letteratura. Ora è il più anziano cantante mai arrivato in vetta alle classifiche americane e l’unico ad aver raggiunto il primo posto in tutti i decenni della sua carriera. Sarebbe comunque un risultato mirabile: l’esserci riuscito senza mai ripetersi, costringendo il pubblico a seguire e capire e alla fine ad apprezzare le sue vertiginose giravolte rende il particolare qualcosa in più che non una semplice curiosità da Guinness dei primati.
La rivolta giovanile degli anni 60 e il ‘68 hanno molti genitori, ma anche nonni, zii e fratelli maggiori. Però se se ne dovesse nominare uno solo per tutti, quello sarebbe il giovanissimo Bob Dylan. Era un Woody Guthrie più talentuoso, infinitamente più complesso e capace di parlare ai giovani di tutto il mondo. Trasudava rabbia e indignazione. Profetizzava rivolta e sconvolgimento: “I tempi stanno per cambiare”. Con le sue canzoni che bollavano ogni ingiustizia accese la miccia. Però quando gli appiccicarono l’etichetta di cantante di protesta se la scrollò di dosso anche a costo di fare imbestialire i tantissimi che lo volevano mummificare nella parte eterna del Woody reincarnato: “Ero così più vecchio allora, sono molto più giovane adesso”.
Attaccò la chitarra agli amplificatori, e al festival folk di Newport del 1965 lo scandalo fu tale che finì per davvero a botte. Passò a testi ermetici ispirati agli autori beat di cui diventò intimo. Smise di vestirsi come un oakie della Grande Depressione, rimasto senza casa per colpa delle Dust Storms e delle banche, e si mascherò da cool: il divo del momento, sarcastico, inarrivabile, sprezzante con la stampa, con il pubblico e anche le star più scintillanti, come i Glimmer Twins Mick and Keith: «La differenza tra noi è che io avrei potuto scrivere Satisfaction, voi non potreste mai scrivere Desolation Row». I puristi folk storsero il naso e presero a fischiare sempre più forte ma per la controcultura della seconda metà dei 60 il Dylan elettrico e visionario fu tanto importante quanto il menestrello acustico “con la voce di sabbia e colla”, copyright David Bowie, lo era stato per il movimento dei diritti civili nella prima parte del decennio. Non è un caso se il principale gruppo armato del Movement americano, gli Weathermen Underground, rubarono il loro nome da una sua strofa, “Non hai bisogno del metereologo per sapere da che parte tira il vento”.
Ma in qualche modo la tournée dei fischi e lo stress di cinque anni vissuti senza mai staccare il piede dall’acceleratore lasciarono il segno. Dylan colse l’occasione di un incidente in moto nel quale non si era in realtà fatto quasi niente per sparire. Era il 1966 e non sarebbe tornato su un palco, tranne due o tre apparizioni episodiche, prima del 1974. Quando l’onda che aveva annunciato arrivò davvero ovunque, nel 1968, Dylan non c’era. Se ne stava nella sua casa a Woodstock con moglie e figli, un signorotto di campagna lontano dall’incendio che più di chiunque altro aveva contribuito ad appiccare. Mentre la musica diventava sempre più incendiaria lui intonava melodie country. Per la prima e non ultima volta lo diedero per spacciato. La casa discografica rifiutava di far uscire le canzoni bellissime che aveva inciso con la Band nella cantina di casa, subito dopo l’incidente del ‘66: sarebbero sembrate una pietra tombale, la prova sonante di cosa Bob Dylan era stato e non era più.
A risentirle oggi, specialmente con gli inediti dell’epoca che Dylan ha fatto uscire con decenni di ritardo nelle Bootleg Series, quelle canzoni non sono affatto male. A rovinarle era solo il nome dell’autore ed esecutore, che rendeva inevitabili imbarazzanti paragoni con i capolavori precedenti. I critici comunque si sforzavano, senza gran successo, di salutare saltuariamente, la “resurrezione” di Bob Dylan. Quando risorse davvero, nel 1974, nessuno sentì il bisogno di specificarlo. La musica parlava da sola e non c’era più nessuna ombra di imbarazzo nel mettere a confronto i nuovi capolavori, Blood on the Tracks o Desire, con quelli di 10 anni prima. Non era più lo stesso Dylan. Aveva imparato, avrebbe spiegato in seguito, a costruire e creare consapevolmente, con l’intelletto quello che prima veniva fuori spontaneamente. I suoi pezzi erano volutamente cinematografici, raccontavano storie dietro le quali mascherava però, almeno in Blood on the Tracks, le confessioni più intime che un autore abbia mai consegnato a uno studio di registrazione.
Tornò sul palco per un tournée trionfale, l’ultima con la leggendaria Band, e subito dopo per quell’avventura pazzesca che fu la Rolling Thunder Review, una serie di concerti con amici e musicisti strepitosi non negli stadi delle grandi metropoli ma nelle cittadine che sono la pancia e l’anima d’America. Chi volesse sapere o ricordare cosa fu la Rolling Thunder, il picco di Dylan dal vivo, può affidarsi al bellissimo film che Martin Scorsese ha tratto dalle pellicole registrate durante il concerto, disponibile su Netflix. Da allora Dylan è morto e risorto altre due o tre volte. Si è convertito e poi è tornato indietro. È stato di nuovo quasi dimenticato negli anni 80 e ha reagito partendo per una tournée che non è mai finita. Dalla fine degli anni 90 in poi ha messo a segno una serie di dischi uno più universalmente lodato e venduto dell’altro nonostante l’incalzare dell’età: “Non è ancora buio, ma sta arrivando qui”. È passato per una fase da chansonnier intrattenitore di Broadway negli anni 40. Ha dedicato tre album, uno dei quali triplo, a cover di Sinatra allo stesso tempo rispettose e sovversive.
Quanto grande fosse la sua musica nella fase religiosa lo si è capito solo pochi anni fa, quando è uscito il volume delle Bootleg Series dedicato ai Gospel Years. Dylan ha sempre scritto capolavori che si è poi tenuto nel cassetto per decenni, perché tra le bizzarrie dell’uomo e dell’artista c’è anche la tendenza incomprensibile a lasciare fuori dai suoi dischi alcuni dei pezzi migliori, oppure di optare per versioni delle canzoni pubblicate peggiori di quelle messe da parte. Di solito le raccolte di inediti aggiungono pochissimo alla conoscenza degli autori: curiosità per fans e maniaci. Il caso Dylan è opposto: chi non ne conosce gli inediti e gli outtakes, fortunatamente raccolti nell’infinita serie di Bootleg, non può dire di conoscerlo davvero.
La grandezza di Dylan, come artista, non la mette in discussione più nessuno. Ma cosa è rimasto, nel corso dei decenni e delle trasformazioni, del profeta ribelle che ‘sessant’anni fa aveva incendiato una generazione? Poco, se ci si limita alla superficie. Moltissimo se non ci si ferma al pelo d’acqua. Perché la sua potenza non stava neppure allora nella violenza delle invettive o nella puntualità delle denunce: stava in una concezione dell’arte come espressione popolare, democratica alle radici e non negli orpelli. Nella capacità di trasformare la cultura popolare in arte senza mai tradirla. Quella, nella giostra delle fasi e delle diverse attività artistiche di Dylan, non è mai cambiata.
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