“Il messaggio che le grandi aziende vogliono far arrivare con il boicottaggio è quello di controllare le decisioni attraverso il denaro. La posizione di Facebook è quella che propende per non accettare questo tipo di ricatti, però è ovvio che ha delle ripercussioni. Da un lato la stessa reputazione di Facebook può essere minata, dall’altro si attua un’esercitazione di controllo. Per quanto l’intento sia positivo, poichè il fine è quello di evitare che si dia spazio all’istigazione all’odio nelle piattaforme dove le grandi aziende fanno pubblicità, è comunque un tentativo di esercitare il controllo attraverso i soldi”. Veronica Gentili è una delle più famose imprenditrici digitali in Italia. Facebook ads expert e co-fondatrice della società di consulenza Glisco marketing, ha dato al Riformista la sua opinione sulla campagna di boicottaggio che sta coinvolgendo le più grandi aziende mondiali come Coca-cola, Unilever, Patagonia e Starbucks, per citarne solo alcune. Stop  Hate For Profit ha infatti come fine quello di boicottare la piattaforma Facebook, accusata di fare troppo poco per limitare i post di incitamento all’odio pubblicati quotidianamente anche da utenti illustri come il presidente Usa Donald Trump. Il caso George Floyd è ormai dilagato in ogni parte del mondo ponendo l’accento sui continui messaggi e casi di discriminazione, odio e razzismo che, come la storia insegna, sembra non trovare una soluzione. Sono oltre 100 le aziende finora che hanno aderito alla campagna sperando di trovare una risoluzione a questo problema.

IL BOICOTTAGGIO – Questa campagna di boicottaggio in realtà ha permesso di far venire a galla problemi da sempre irrisolti, un po’ com’è sempre accaduto con altri tipi di iniziative volte a sollecitare i social affinché le pubblicità dei cosiddetti over the top non fosse affiancata da messaggi e contenuti ritenuti offensivi o discriminanti verso qualsiasi tipo di minoranza. Come ci spiega Veronica Gentili “ogni anno c’è un boicottaggio nei confronti di Facebook. Nel 2017 grossi brand hanno detto che non avrebbero fatto più pubblicità su Youtube e l’avrebbero bloccata perché alcune delle loro pubblicità erano state inserite accanto a contenuti razzisti e omofobici. Siamo nel 2020 e questa cosa sembra essere dimenticata, così come sembra che non ci sia stato un grosso impatto sulla piattaforma Youtube”. Secondo l’esperta le cose vanno quindi analizzate e ridimensionate. “E’ vero che Facebook ha perso in borsa 8 miliardi di dollari e il portfolio di Zuckerberg è stato rivisto (ha perso circa 7 miliardi del suo patrimonio personale), però va notato che si tratta di aziende molto grosse e nella revenue globale del social sono solo una parte del totale”. 

Ed è proprio su questo punto che si focalizza tutta l’attenzione mediatica che sta coinvolgendo questa campagna. Quanto ancora perderà Facebook con questo boicattaggio? Ci saranno delle conseguenze? “C’è da dire che come frontman di Facebook Zuckerberg si sta muovendo tantissimo per cercare di venire incontro agli inserzionisti. Io faccio sponsorizzazioni su facebook da oltre 10 anni e le misure si sono inasprite ancora di più. A volte in maniera anche eccessive, soprattutto per la pubblicità. Qualsiasi cosa possa disturbare la policy audience Facebook effettua il blocco, anche senza motivo”, ci spiega Veronica, “Facebook lo scorso anno ha fatturato circa 70 miliardi di dollari. La Cnn riporta che l’azienda che spende di più per le campagne pubblicitarie tra i 100 brand aderenti alla campagna, con una cifra intorno ai 4,2 miliardi di dollari, equivale a circa il 6 % della revenue della piattaforma. Per quanto si possano spendere cifre enormi, solo Starbucks ad esempio l’anno scorso ha speso 95 milioni di dollari, il core di facebook sono le piccole e medie imprese. Quindi il danno economico non è così grande. Sono solo 100 su 8 milioni di inserzionisti. Se si vanno ad analizzare le generalità delle aziende che hanno aderito sono imprese molto grandi che fanno un branding massiccio su facebook, ma chi ha davvero bisogno di Facebook sono le medie e piccole imprese, loro rappresentano la vera spina dorsale del social di Zuckerberg”.

Infatti per una grande azienda Facebook è solo una delle voci che permette all’impresa di arrivare a chiunque, mentre per le piccole imprese è una quasi essenziale: “Per l’azienda più piccola sarebbe un grosso problema se dovessero aderire ad una campagna del genere. La maggior parte dei big che hanno aderito faranno uno stop valido solo per il mese di luglio. C’è anche una parte degli over the top che bloccherà le pubblicità fino alla fine dell’anno, ma è una piccola fetta che non va certo ad impattare in maniera decisiva sui 70 miliardi di revenue fatti lo scorso anno”.

LA CAMPAGNA – Per quanto sia nata con tutte le buoni intenzioni ai fini di contrastare il fenomeno del razzismo e dell’odio, la campagna ‘Stop hate for profit’ sembra in realtà che nasconda altri interessi. “Per quanto Facebook dia particolare attenzione a questi problemi, il tema dell’hate speech è molto sentito anche su piattaforme come Twitch che stanno restringendo le proprie policy e i propri regolamenti. C’è da vedere effettivamente in quanti aderiranno all’iniziativa stop for hate profit e quanto impatto avrà anche perché effettivamente non credo che facebook vada a cambiare le proprie policy su un ricatto economico”. La stessa Gentili ci spiega che Mark Zuckerberg ha attivato negli anni una serie di iniziative atte a contrastare l’esclusività sociale: “Per quanto sia un colosso e dunque orientato al profitto, c’è sempre stata una grande attenzione da parte di Facebook all’inclusività sociale cominciando a restringere ancora di più la policy per le discriminazioni. Si stanno muovendo in maniera concreta, di certo il caso George Floyd non è passato in osservato neanche per un social come Facebook”.

La stessa sensibilità è avvenuta anche nel caos dell’emergenza coronavirus, dove il social ha adottato tutta una serie di procedure e di blocchi per far fronte al marasma di informazioni e contenuti. “All’inizio hanno bloccato tutte le pubblicità delle mascherine in maniera preventiva. Per alcuni era diventato una fonte di revenue la vendita di questo prodotto, quindi era un problema. “In seguito ha allentato un po’ le maglie  e ora si possono vendere o pubblicizzare mascherine”, ci spiega la Gentili. Questo ovviamente va a ripercuotersi in maniera decisiva e determinante soprattutto sulle piccole e medie aziende. “Io lavoro con brand importanti ed è chiaro che aziende strutturate hanno riferimenti interni, a differenza delle piccole imprese. Anche quando vengono bloccate sponsorizzazioni o una piccola azienda deve riuscire a risolvere dei problemi legati alle pubblicità sui social diventa difficile. Il sistema di custome care di Facebook non è il più responsivo che esista e quindi sì, quelle che pagano di più lo scotto di queste penalizzazioni che vanno a pesare sui contenuti sbagliati”.

LE CONSEGUENZE – A questo punto, una delle domande che ci si pone è se questo sistema di blocco o inasprimento delle policy che è avvenuto con il coronavirus possa bloccare le fake news o, ancor di più, controllare la libertà di espressione sul social. “Facebook sono anni che cerca di bloccare le fake news con una sempre più sofisticata intelligenza artificiale. La verità è che Facebook può controllare quello che vuole, ma la responsabilità deve partire da noi. E’ sempre il soggetto che è propagatore delle fake news, è sempre la persona quella che propaga l’odio. Facebook è il social network più diffuso al mondo quindi ha una responsabilità sociale di un certo peso e deve limitare certi tipi di notizie. Ma dall’altra parte bisogna agire secondo la responsabilità di ognuno di noi”, afferma Veronica. “C’è una linea molto sottile tra libero pensiero e incitamento all’odio, tra espressione della propria opinione e pensiero negativo nei confronti di una data minoranza. D’altra parte la precisione degli algoritmi può essere così infallibile che anche un minimo contenuto ritenuto offensivo o contro il regolamento di Facebook può essere bloccato, sebbene a volte non sia così. Un esempio emblematico che mi viene in mente riguarda la pubblicità di una bellissima opera d’arte che però fu bloccata per oscenità. Chiaramente c’è il rischio di censura in maniera totalmente sbagliata”.

Dunque una delle conseguenze maggiori a cui può portare questa iniziativa è di inasprire ancora di più il controllo e il potere degli algoritmi di facebook, con l’effetto di reprimere la libertà di espressione. “L’idea è di aumentare il controllo sulle informazioni che circolano e sui post che vengono pubblicati espellendo dalla piattaforma chi attua un comportamento non considerato performante alla piattaforma”, ci spiega Veronica. “Quindi sì c’è indubbiamente un ipercontrollo che da un lato può essere visto come una cosa positiva perché ci aiuta a estromettere le pratiche negative, dall’altro aiuta a praticare un controllo. Ricordiamoci che questo controllo viene fatto tramite sistemi di intelligenza artificiale, quindi gli algoritmi avranno sempre più controllo su quello che vediamo e che facciamo, e in questo caso glielo stiamo chiedendo noi”. In questo caso a chiederlo sono le grandi aziende che su Facebook si muovono attraverso inserzioni e spazi pubblicitari con grandi quantità di denaro: “I social sono diventati il mezzo di controllo per eccellenza, lo insegna la politica. Il voto si muove sui social, non è un caso che ci sia attenzione ai meccanismi di voto e a quanto possano incidere effettivamente sulla propensione al voto delle persone. Dove c’è il controllo ci sono i soldi quindi è chiaro che le due cose si vanno a sommare e a creare un interesse fortissimo da parte di tutti i più grossi gruppi o da chiunque voglia fare soldi e controllare”.

Sulla base di queste considerazioni, viene da chiedersi se e quanto questo boicottaggio servi effettivamente a contrastare il razzismo. Molte aziende stanno adottando una serie di politiche interne per cui molti prodotti o termini vengono completamente eliminati dalla loro vision d’impresa, come ad esempio la L’Oréal che ha abolito l’uso del termine “sbiancante” per  rinnovare la propria immagine cancellando le passate accuse di aver concentrato il business dell’azienda e la pubblicità sui consumatori bianchi. Per Veronica “come la storia ci insegna, bisogna stare attenti all’estremizzazione di tutto. Perché inclusione non deve significare radicalizzazione. Siamo tutti d’accordo sull’inclusione, sul fatto che il razzismo è una cosa triste e soprattutto ignorante, perché secondo me denota ignoranza, qualcosa di differente da te in realtà ti può arricchire tantissimo. Ma deve essere fatta una grande attenzione alla strumentalizzazione. Qualsiasi parola, espressione o pubblicità che possa essere minimamente associata anche alla lontana ad una forma di esclusione diventa un modo per strumentalizzare e affibbiare l’etichetta di ‘razzista’ ad un’azienda. Io sono dell’idea che bisogna essere equilibrati anche nelle posizioni”.

Il problema quindi ritorna sulla responsabilizzazione personale: “Il problema di oggi è che una persona estremista può influenzare migliaia di persone, cosa che prima era più difficile. C’è bisogno di tanto equilibrio e di evitare tutte queste estremizzazioni. Alla base deve esserci soprattutto un discorso di responsabilizzazione ed educazione a questi strumenti che possono far male o uccidere, come il fenomeno del revenge porn, e possono incidere sulla vita delle persone in bene e in male”.