La riduzione della questione meridionale a questione criminale o, se vogliamo, principalmente criminale è un cliché in voga da almeno tre decenni e che ha progressivamente compromesso le speranze del mezzogiorno di riscatto da una condizione economica e sociale che, invero, da tempo poco ha a che vedere con le mafie. I clan, stando alla più accreditata storiografia, sono presenti al Sud da almeno un secolo, ma non a caso i meridionalisti di vaglia non le hanno mai prese seriamente in considerazione come uno dei fattori di depressione della condizione sociale di quelle regioni.

Una monumentale bibliografia ha per decenni, sino agli anni ’90 del secolo scorso, spiegato che erano il sottosviluppo infrastrutturale, la marginalità imprenditoriale, il velleitarismo delle classi dirigenti i veri ostacoli alla crescita del mezzogiorno; laddove, infatti, questi fattori hanno allentato la loro presa i territori si sono sviluppati e hanno raggiunto livelli ragguardevoli di benessere e di sviluppo (la Puglia in primo luogo).
Tuttavia, da tre decenni questa analisi autorevole e radicata della questione meridionale è stata offuscata dalla convinzione che fossero, invece, i clan a impedire che la clessidra del rilancio fosse capovolta, attanagliando economia, politica, istituzioni in formidabili gangli mortali. Così la risoluzione dei problemi del Sud è stata affidata a una preventiva, lunghissima, estenuante opera di bonifica a carattere securitario. Processi, misure di prevenzione, interdittive antimafia, sono apparse la pre-condizione indispensabile prima di avviare risorse al Sud, altrimenti disperse nelle mani delle cosche e dei loro accoliti. Un teorema, come qualcuno l’ha definito, che ha criminalizzato indistintamente molte porzioni del mezzogiorno e ha costituito l’alibi per giustificare l’invio massiccio di mezzi di contrasto in luogo degli investimenti cospicui che la situazione sociale ed economica richiedeva.

Una condizione per cui – in attesa dell’improbabile “via libera” da parte degli apparati di repressione, poco interessati ad allentare l’allarme – ogni stasi era ampiamente giustificata e le fughe e i timori degli investitori erano finanche incoraggiati. La delocalizzazione di risorse economiche e umane dal Sud a causa del pericolo mafia (non della mafia o non solo) è stata incalcolabile e nessuno ha inteso mai misurarla in modo attendibile. Miliardi mandati in fumo come incenso sull’altare di una palingenesi securitaria il cui avveramento non viene mai proclamato, anche per una sorta di scarso interesse a farlo.

Una recente, significativa intervista del procuratore di Napoli su “L’Espresso” e la vicenda del sindaco Decaro a Bari offrono una sorta di implicita conferma alla convinzione che la questione economica del mezzogiorno possa trovare soluzione solo dopo una capillare bonifica dei territori dalla presenza mafiosa; il che – stando alle stesse analisi dei protagonisti degli apparati di contrasto – sembra una missione difficile se non impossibile. La presenza di soggetti mafiosi o collusi con le mafie ha assunto in molti luoghi, a macchia di leopardo in vero, connotati endemici. La progressiva liberazione di centinaia di mafiosi, tratti in arresto e condannati nel corso degli anni ’90 e 2000 restituisce ai territori soggetti che ben che vada devono reinserirsi socialmente, debbono provvedere al proprio sostentamento e, nel farlo, anche se non commettono reati tendono a riproporre il tessuto connettivo di provenienza. Solo ieri il ministero della Giustizia ha reso noto che ci sono 27.102 condannati beneficiari della messa alla prova, 844 per violazione della legge sugli stupefacenti. La società deve necessariamente riassorbire al proprio interno persone che hanno espiato la pena e si devono collocare lavorativamente. Il caso di Bari, i problemi con le cooperative di ex detenuti a Napoli o a Roma, sono fattori che tendono a rendere endemica la ricostruzione di vincoli, contatti, solidarietà che possono (si badi bene: possono) riproporre minacce malavitose.

Ma nessuno può immaginare di avviare, per via giudiziaria, una sorta di miracolosa redenzione di questi soggetti e di quanti appartengono ai clan, in vista dell’avvento di un’utopica “Città del sole”. L’inevitabile contiguità sociale con queste persone che hanno espiato la propria pena, impone però una drastica rivisitazione di alcune categorie “nobili” dell’antimafia che – cesellate nel tempo dell’egemonia delle cosche (sino all’ondata repressiva dei citati decenni) – mostrano di aver esaurito il proprio ciclo vitale. Un conto erano le frequentazioni, i contatti, le cointeressenze con un mondo che procurava vantaggi a suon di lupara, altro avere a che fare con gli “sconfitti” e i “reduci” di cosche battute e decimate da arresti e confische. Accanirsi con i piani bassi della mafia è operazione, oggi, poco commendevole, così come dare enfasi mediatica a frattaglie di un mondo in disarmo. Laddove il problema non è di individuare ipotetici o ipotizzabili piani alti delle cosche, ma di comprendere come i clan più importanti si siano riorganizzati per sopravvivere alla repressione passata. Il rischio è che – come dopo il pungo di ferro del prefetto Mori negli anni ’30 – le mafie “alte” abbiano abbassato il capo e abbiano allocato nell’ombra i loro interessi, rendendoli impenetrabili a ogni indagine. Ipotesi, ovvio.