Il bonus mamme doveva essere, per come è stato presentato dalla stessa presidente del consiglio, tra i provvedimenti simbolo del governo Meloni. Sarà invece un flop, se non proprio un clamoroso autogol. Il bonus (l’ennesimo) prevede un esonero del 100 per cento dei contributi per molte lavoratrici – non partite iva – con due figli. Ma da quando è stato annunciato ha accumulato ritardi perché l’Inps ha procrastinato per mesi la pubblicazione della circolare. Poi finalmente la pubblicazione è avvenuta a febbraio 2024.

L’esonero della contribuzione previdenziale (9,19% della retribuzione), prevede fino a un massimo di 3mila euro annui da riparametrare su base mensile per le lavoratrici che hanno almeno tre figli. La misura partirà già quest’anno in via sperimentale e sarà attribuito anche in presenza di due figli. L’agevolazione riguarda tutte le dipendenti del settore pubblico e privato (anche agricolo, in somministrazione e in apprendistato) con contratto a tempo indeterminato. Sono escluse, invece, le lavoratrici domestiche.

Qui vediamo già le prime diseguaglianze: perché i tempi determinati sì, e partite iva no? Le madri, in possesso dei requisiti a gennaio 2024, hanno diritto all’esonero dal primo mese dell’anno. Se la nascita del secondo figlio interviene nel corso di quei 365 giorni, il bonus sarà riconosciuto dal mese di nascita fino al compimento del decimo anno del bambino. Nel 2025 e nel 2026, invece, il beneficio è assegnato dalla nascita del terzo figlio e si conclude con il compimento del diciottesimo anno dell’ultimo figlio. Il bonus si ottiene fino al mese del compimento del decimo anno di età del figlio più piccolo. Più è alto il reddito, più è alto il bonus.

Ma il peggio è tutto da scoprire: i contributi previdenziali infatti vanno in deduzione, cioè abbattono l’imponibile Irpef. Quindi quello che entra dalla porta esce dalla finestra. La crescita del reddito lordo fa aumentare l’Isee in base al quale si calcolano assegno unico, rette degli asili e mense della scuola. Il sospetto che qualcosa non funzionasse era nell’aria, il governo aveva infatti declassato il provvedimento da misura identitaria a sperimentale. Da simbolo a spot.

Come evidenzia un’analisi Fisac Cgil il problema è che la diminuzione della trattenuta previdenziale fa aumentare l’imponibile fiscale e di conseguenza l’Irpef da pagare. Da ciò ne deriva che le lavoratrici che decideranno di accedere al bonus, oltre a non ricevere un aumento della retribuzione pari al suo ammontare, vedranno crescere del reddito lordo e schizzare l’Isee, ovvero l’indicatore utilizzato per decidere l’accesso ad altre forme di sostegno e agevolazioni. In pratica, in molti casi le lavoratrici potrebbero trovarsi nella paradossale situazione di accedere a un contributo che fa aumentare – e di molto – altre spese. È il motivo che sta spingendo molte donne a non richiederlo o a passare estenuanti giornate con mano alla calcolatrice.

Difficile quindi immaginare che il provvedimento sarà un incentivo alla natalità: oltre a escludere moltissime madri dal bonus, ovvero tutte quelle che non hanno la fortuna di avere un contratto a tempo indeterminato, rischia di danneggiare anche le possibili percettrici che, per pochi euro di aumento in busta paga, potrebbero ritrovarsi assai più spese da sostenere perdendo altri tipi di sostegni.
Il governo Meloni che voleva incentivare la procreazione si è ritrovato con una gravidanza isterica.