Il dibattito
Boom di crac finanziari al Sud, il regionalismo differenziato e il sogno intesa De Luca-Calderoli
La questione del regionalismo differenziato è in questi giorni tornata al centro del dibattito politico nazionale: l’incontro tra il ministro Calderoli e il presidente campano De Luca, potrebbe configurarsi come una nuova Teano, nel senso che ancora una volta in terra campana si decideranno i destini dell’unità nazionale (così come li decise la stretta di mano tra Vittorio Emanuele e Garibaldi) e dall’eventuale accordo potrebbe nascere una intesa politica per definire il nuovo assetto dei poteri locali.
Le regioni del Centro Nord (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) hanno interesse a controllare direttamente le politiche del lavoro, l’istruzione, la salute, la tutela dell’ambiente, considerati settori strategici nella competizione intereuropea, utilizzando, ed è questa l’aspirazione più intima e taciuta, gran parte del prelievo fiscale locale. In questo quadro politico centrato sul ruolo delle regioni, i comuni sembrano passare in secondo piano. Eppure, nonostante l’attuazione del regionalismo differenziato, la struttura dei poteri locali sarà sempre definita a partire dal ruolo svolto dai comuni nella fornitura dei servizi pubblici essenziali e nella raccolta dei tributi fondamentali.
Se osserviamo i dati sullo stato di salute dei comuni, in relazione alle condizioni di sofferenza finanziaria, che rivelano, cioè, una insufficienza strutturale delle entrate rispetto al fabbisogno di spesa, e che incorrono nelle conseguenti procedure di risanamento finanziario (deficitari, riequilibrio finanziario pluriennale e dissesto), notiamo che la spinta verso l’autonomia differenziata è più forte proprio in quelle regioni in cui queste condizioni sono più rare. Tra il 1989 (dato di introduzione dell’istituto) al 2022, i comuni che hanno fatto ricorso allo stato di dissesto sono stati 16 in Lombardia, 3 in Veneto, 8 in Emilia Romagna. I dati per le regioni meridionali sono molto diversi: nello stesso arco di tempo, i comuni campani che hanno fatto ricorso al dissesto sono stati 159, in Calabria, ben 180, in Sicilia, 64 e in Puglia 44. All’appuntamento inesorabile con l’autonomia differenziata, le regioni meridionali porteranno la debolezza strutturale dei loro comuni, e in primo luogo della città più grande del Mezzogiorno, Napoli, posta sotto una sorta di amministrazione controllata dal Patto per Napoli e in predissesto da dieci anni.
De Luca potrà sfoggiare all’incontro tutte le sue apprezzabili doti istrioniche di fronte al freddo Calderoli, ma sarà la parte debole perché rappresenta una desolata landa di dissesti e non opulenti municipi. Secondo i dati del Ministero degli Interni allo stato attuale, in Calabria, gli enti in riequilibrio finanziario costituiscono il 7,42% del totale, pari a 404, mentre in dissesto finanziario risulta il 9,16% dei comuni, per un totale di enti in difficoltà pari al 16,58%; in Campania, gli enti in riequilibrio sono il 8,54% del totale dei comuni pari a 550, mentre gli enti in dissesto finanziario sono il 4,73%, per un totale di enti in difficoltà economico-finanziaria pari al 13,27%; in Sicilia, gli enti in riequilibrio sono il 11,76 del totale dei comuni pari a 391, mentre in dissesto finanziario risulta il 7,67%, per un totale del 19,43% di comuni in sofferenza finanziaria; in Puglia solo il 1,17% del totale dei comuni è in dissesto, mentre il 10,51% è in riequilibrio finanziario, per un totale di 11,67% di comuni in sofferenza finanziaria. Esiste quindi una questione meridionale degli enti locali, ovvia conseguenza del dualismo economico Nord-Sud. Si tratta di condizioni strutturali che sono difficilmente rimovibili e che sono aggravate dalle norme sulla redazione dei bilanci.
La sofferenza finanziaria dei comuni meridionali deriva soprattutto dalla scarsa capacità di riscossione, sia per le entrate tributarie (Tari, Imu, imposta di soggiorno) che per quelle in conto capitale (derivanti dalle alienazioni di beni patrimoniali e da trasferimenti di risorse statali, in primo luogo il Fondo di solidarietà comunale) ed extratributarie (prevalentemente multe). Le rigide regole di redazione dei bilanci, inasprite ulteriormente con i provvedimenti del 2015, alimentano una sorta di circolo vizioso che porta a crescenti disavanzi. Il caso di Napoli è emblematico: il comune ha accumulato circa 4 miliardi di residui attivi, cioè la differenza tra le voci di entrata iscritte a bilancio e l’effettiva riscossione che si ferma al 68,49% per le entrate tributarie, al 25,71% per quelle extratributarie e solo al 20,94% per quelle in conto capitale.
La legge richiede che in via prudenziale siano accantonate in un Fondo Crediti Dubbia Esigibilità (FCDE), le entrate ritenute di dubbia e difficile esazione, che nel 2021, ammontano a circa 2 miliardi, una cifra che di fatto forma il disavanzo di gestione pari a 2.212.461.726. Ancora una volta, Sicilia, Campania e Calabria, hanno il più elevato rapporto tra FCDE ed entrate correnti, superiore all’8%. Una vera differenziazione territoriale dovrebbe tener conto che il Mezzogiorno si trova in condizioni di vulnerabilità sociale e materiale e per questo ha bisogno di leggi speciali, anche in tema di contabilità, poiché le regole contabili non possono essere le stesse per Milano e Napoli. Modificare la norma sul Fondo Crediti Dubbia Esigibilità per i comuni meridionali potrebbe alleviare il loro stato di sofferenza, ma sul tavolo dell’autonomia differenziata questo tema resta assente.
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