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L'analisi
Boom di Trump con i podcast, flop di Harris con le pop star: le facce opposte del voto Usa
Il candidato repubblicano ha puntato su interviste, video social e imprenditori. La dem ha scommesso sulle celebrities, ma gli endorsement sono stati inutili
I risultati elettorali americani ci consegnano almeno due macro indicazioni di strategia elettorale e comunicazione politica. La prima: coinvolgere le persone in quanto cittadini e non in quanto categorie avvantaggia non solo il partito o la coalizione che contano di vincere le elezioni, ma anche la stessa politica e la cultura del paese.
Secondo il sondaggio del think tank conservatore American Compass, condotto con YouGov a ottobre, ben il 20% dei “giovani uomini non bianchi” non aveva ancora deciso se sostenere Donald Trump o Kamala Harris. C’era però un dato importante: nonostante il fatto che fosse ancora contendibile, i democratici avevano smesso di parlare a questa frazione di elettorale. Perché? Perché in realtà Harris non sapeva cosa dire a questi “disertori”: la sua coalizione era costruita su una politica identitaria che presupponeva un’alleanza tra elettori più giovani, LGBTQ+, donne e persone di colore, tutti accomunati dallo stesso impegno per una visione progressista della giustizia sociale.
Dalla sua, Barack Obama aveva rivolto parole di biasimo ai giovani uomini neri per non aver offerto a Kamala l’entusiasmo a cui aveva diritto. “Mi fa pensare che, beh, non vi sentiate a vostro agio con l’idea di avere una donna come presidente, e ora state pensando di sostenere qualcuno che ha una storia di denigrazione nei vostri confronti, perché pensate che sia un segno di forza, perché è questo che significa essere un uomo? Sminuire le donne? Non è accettabile”, ha detto loro l’ex presidente Usa. Ma, secondo questa analisi, né Obama né Harris avevano compreso il vero motivo per cui i giovani uomini non bianchi si spostavano a destra: loro non vedevano affatto la politica in termini razziali o di genere, ma esprimevano valori e priorità che si allineavano molto di più con quelli della classe operaia bianca.
Il sondaggio American Compass ha scoperto, ad esempio, che entrambi questi segmenti di elettorato concordavano sul fatto che la cultura statunitense ponesse troppa enfasi sulla diversità, mentre le donne liberali benestanti – lo zoccolo duro di chi ha scelto la candidata democratica – volevano un drastico cambiamento proprio in quella direzione. Negli ultimi giorni, prima delle elezioni, la campagna di Harris ha persino rinunciato alla pretesa di rivolgersi direttamente ai giovani uomini, optando per una sorta di call to action alle loro compagne. “Abbiamo tutto il diritto di chiedere agli uomini delle nostre vite di fare di meglio per noi”, ha supplicato Michelle Obama.
Non è molto diverso l’errore commesso dai democratici con gli elettori di minoranze etniche: lungi dall’essere scoraggiati dalla promessa di Trump di attuare deportazioni di massa di immigrati clandestini, per esempio, un consistente numero di dominicani ha accolto con favore la posizione trumpiana. “Sapete chi desidera di più le deportazioni di massa?”, ha chiesto un rappresentante di questa comunità. “I migranti legali”, si è poi risposto. Come la comunità yemenita, i cui anziani hanno fortemente sostenuto il candidato repubblicano solo pochi giorni prima delle elezioni. “Siamo cresciuti in dittature, non puoi ingannarci chiamando dittatore qualcuno che è solo schietto”, hanno risposto agli inviti al voto per democratici.
La seconda indicazione, invece, arriva direttamente dalla strategia di comunicazione basata sui podcast di Donald Trump e questo aspetto (per nulla marginale) è stato evidenziato da uno dei nostri maggiori esperti – youtuber e imprenditore tech – Marco Montemagno. Mentre i democratici hanno scelto una strategia di endorsement da parte di celeb del calibro di Taylor Swift, Beyoncé, George Clooney – che non è servita a molto – Trump ha optato per il podcast come moderno canale di comunicazione con contenuti long-form (ciascuna intervista arriva a durare anche 2-3 ore), facendosi intervistare ad esempio da Lex Fridman, Theo Von e Joe Rogan e raccogliendo rispettivamente 6, 14 e 46 milioni di visualizzazioni, solo su YouTube. Visualizzazioni a cui vanno aggiunte quelle delle clip poi diffuse, per esempio su TikTok, che hanno consentito a singoli estratti da 60-90 secondi di raggiungere un numero di persone ancora superiore.
Trump ha anche organizzato su YouTube “live speech” con personaggi chiave del mondo economico che rappresentano a loro volta pezzi importanti di società e non solo simbolicamente: per esempio ha dialogato live con l’imprenditore miliardario indiano-americano Vivek Ramaswamy e con Dana White, imprenditore e attuale presidente della Ultimate Fighting Championship (organizzazione di arti marziali miste statunitense).
Queste due indicazioni emerse dalla strategia politico-elettorale repubblicana sono molto connesse alla stessa personalità di The Donald. Che ha in odio (almeno) due cose: la burocrazia e la camicia di forza del politicamente corretto. E infatti ha già annunciato di voler deregolamentare il settore tecnologico e, in particolare, l’IA, “radicandola nella libertà di parola e nella prosperità umana”. Che vorrà dire? Ancora non si sa ma, più che un percorso dettagliato di politica, somiglia a una dichiarazione di guerra alla cultura democrat.
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