In uno degli innumerevoli decreti del Governo emessi sulla base dell’emergenza virus, una norma che interessa il carcere (art.123 del decreto legge 18/2020) si ripropone la soluzione tecnologica di condizionare una misura alternativa alla detenzione all’utilizzo del controllo a distanza affidato al cosiddetto braccialetto elettronico.
Questa misura è sostenuta anche da parte di persone in buona fede e animate da buone intenzioni. Per me è la disperante constatazione che abbiamo predicato nel deserto e che le nostre ragioni legate ai principi della Costituzione sono destinate alla sconfitta.

Le mie perplessità vengono da lontano e sono andato a rileggere un formidabile pezzo di Alessandro Margara pubblicato sul mensile Fuoriluogo allegato al Manifesto il 26 ottobre 1999 intitolato “L’illusione elettronica” e con il sottotitolo: Braccialetto ai detenuti: un dialogo di fine millennio. L’ironia di Margara demoliva i presupposti e le conseguenze della proposta. Iniziava così: “Una volta si sarebbero dette delle sciocchezze come quella che è bene trattare le persone come persone e non come cose, ma una volta è una volta. Meno male che almeno Caselli ha detto che il braccialetto è odioso e Corleone ha messo in guardia sui ritrovati tecnici: si sa –dice- dove si comincia e non si sa dove si finisce”. Assicuro che l’articolo va letto integralmente ed è assai istruttivo.

Purtroppo la storia andò avanti in maniera oscura che ho ricostruito in un intervento nel volume Volti e maschere della pena, curato da Andrea Pugiotto e da me pubblicato nella collana della Società della Ragione edito da Ediesse nel 2013. Partivo dalla denuncia della Corte dei Conti del 13 settembre 2012 di critica serrata al cosiddetto “Piano carceri”. L’attenzione più penetrante si concentrava proprio sull’uso dei braccialetti elettronici. Nel pacchetto sicurezza del 2001 fu previsto che la detenzione domiciliare fosse controllata attraverso tale strumentazione. Una misura odiosa e inutile, che è costata dal 2002 al 2011 ben 10 milioni di euro all’anno! Lo scandalo, davvero ciclopico, è reso avvilente e offensivo dal numero di braccialetti effettivamente utilizzati: quindici. Ripeto: quindici! Una semplice operazione aritmetica dimostra che uno strumento di scarso pregio ha un costo per l’amministrazione pubblica superiore a quello di un gioiello acquistato da Tiffany.

La Telecom è stata la beneficiaria di quest’affare di regime e la cosa incredibile è che il contratto alla Telecom è stato confermato dal Ministero dell’Interno fino al 2018: agli oltre 81 milioni già incassati in cambio di nulla, si somma la manna di una proroga contrattuale per sette anni, grazie alla decisione della ministra Cancellieri, che pure gode di buona stampa e di consensi trasversali. Nel frattempo, i detenuti vivono come bestie, con cibo insufficiente e con esborsi da strozzinaggio per il sopravvitto.

Vicende come queste, che sono un colpo mortale all’attendibilità istituzionale, rendono impossibile convincere la popolazione detenuta che la mission del carcere sia davvero la loro risocializzazione. Perché gli esempi che si danno non sono particolarmente edificanti. Anche questo spreco di denaro rischia di rappresentare per i detenuti un incentivo a sentirsi “vittime” e, quindi, a non ascoltare neppure le sirene del reinserimento. Noi abbiamo vissuto in questa lunga stagione, che dura da lustri, di deserto di pensiero, una vera tabula rasa. Parlare di carcere può consentirci di ricominciare a ragionare sul diritto, sui diritti umani, sulla Costituzione, sul garantismo, sul codice penale. Significa, cioè, cambiare registro e vocabolario.

Così scrivevo sette anni fa. Ora ho scoperto che dopo avere arricchito Telecom, l’appalto è stato aggiudicato a Fastweb. Pare però che i braccialetti rappresentino ancora l’oggetto del desiderio e subiscano la sorte delle mascherine. Intanto i detenuti rimangono in carcere. Al sicuro.

 

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