Draghi ha preso di petto Conte e lo ha strigliato ben bene. I 5 Stelle avevano presentato centinaia di emendamenti per fare la guerriglia alla riforma Cartabia. Il presidente del Consiglio ha spiegato che non ha tempo da perdere con i ragazzini. Se volete stare dentro, bene – ha detto all’avvocato – sennò finisce qui. Ha detto chiaramente che non si farà sfiancare in chilometriche mediazioni dorotee. Conte è rimasto di sasso. Ora vediamo cosa succederà.
In precedenza aveva parlato la ministra Cartabia. «Le forze politiche spingono in direzioni diametralmente opposte, ma questa riforma deve essere fatta perché lo status quo non può rimanere tale», aveva detto intervenendo ad un convegno al Palazzo di Giustizia di Napoli. «So molto bene che i termini che sono stati indicati sono esigenti per queste realtà – ha sottolineato Cartabia – perché partiamo da un ritardo enorme, ma non sono termini inventati, sono quelli che il nostro ordinamento e l’Europa definiscono come termini della ragionevole durata del processo, che è un principio costituzionale».
Agli intendimenti garantisti del Ministro risponde il fronte dell’opposizione che va dalla magistratura associata a Nicola Gratteri, da Cafiero de Raho a Marco Travaglio, passando per Alessandro Di Battista. È lui, interrompendo la pausa di riflessione che si è preso nel Caribe, ad epitetare con post sui social la riforma: «Sono tornate le porcate immonde come la riforma Cartabia. Oggi Gratteri ha detto che con la nuova prescrizione “converrà più delinquere” ed il procuratore nazionale antimafia De Raho teme conseguenze molto gravi per la lotta alla mafia e al terrorismo. Complimentoni ai 4 ministri M5S che l’hanno votata». La diatriba tra contiani e puristi nel Movimento dunque non è finita, il tormentone proseguirà sotto gli ombrelloni. Il riferimento ai due magistrati non è casuale.
Erano stati loro a dire che l’improcedibilità dell’azione penale nei casi di sforamento della durata dei procedimenti, due anni per l’Appello, un anno per la Cassazione, così come previsto nella riforma, «è una tagliola che rischia di far saltare il 50 per cento dei processi, quasi nessun reato escluso, e mina la sicurezza nazionale e la credibilità dello Stato». Il “Si salvi chi può” era stato lanciato in Commissione Giustizia alla Camera dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e dal procuratore nazionale antimafia e anti-terrorismo Federico Cafiero de Raho, con un appello che non fa prigionieri. Venuta meno l’opposizione del M5S, dopo che Conte ha incontrato Draghi finendo per fumare il calumet della pace, il vuoto della rappresentanza politica dell’opposizione viene colmato direttamente dai due magistrati. Niente intermediari. Al bando anche i Cinque Stelle votati alla trattativa istituzionale: è l’ora di un nuovo Vaffa, stavolta togato. E poco importa se i 5 Stelle alla fine, dopo aver garantito un «contributo costruttivo alla riforma della giustizia» hanno presentato ieri 917 emendamenti, rinverdendo i fasti del rituale ostruzionistico. Un pericolo di fronte al quale Cosimo Ferri, IV, invita al «confronto parlamentare». Il Pd che era stato il più leale alla riforma Orlando, poi alla riforma Bonafede, oggi lo è con la Cartabia: presenta solo 19 emendamenti. Italia Viva ne mette a verbale 59, Forza Italia 109. Tutti nella stessa direzione.
Nicola Gratteri non vuole perdere tempo con le liturgie: «Questa disposizione avrà l’effetto di travolgere un enorme numero di sentenze di condanna con tutto ciò che questo comporta anche sul piano generale preventivo e di sicurezza per i cittadini di questo Paese; le conseguenze in termini concreti saranno la diminuzione del livello di sicurezza nazionale visto che conviene ancor di più delinquere». E ancora, ha spiegato Gratteri, «ci sarà un aumento smisurato dei ricorsi in Appello e in Cassazione». E la riforma Cartabia non prevede l’esclusione dei reati di mafia e di traffico di droga dalla possibilità di concordato-patteggiamento. Sulla prescrizione anche de Raho, nelle stesse ore, ha esposto il suo manifesto: «Immaginare che tanti processi, indipendentemente dalla natura e dall’oggetto, verranno dichiarati improcedibili, è cosa che mina la sicurezza del nostro Paese». La ministra ha sorvolato sugli interlocutori togati e si è rivolta alla politica. «Le forze politiche spingono in direzioni opposte ma la riforma deve essere fatta, ovviamente con gli aggiustamenti tecnici necessari, ma lo status quo non può rimanere tale». E per inciso: «Non stiamo pensando di accorciare i tempi del processo solo con la tagliola della prescrizione – ha spiegato – si pensa a una task force di solidarietà nazionale».
Ma l’imperativo è cambiare. «Il Pnrr – ha aggiunto – è un’occasione unica, non perdiamo il treno». Cambiare, parola urticante, soprattutto per chi ha tenuto le riforme al palo e una certa modalità di gestione penitenziaria sotto silenzio. Cartabia vuole procedere a passo veloce su entrambi i fronti. Oggi alle 11,30 la ministra della Giustizia terrà una informativa in Senato sui fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e sarà l’occasione per accennare alla raccolta di informazioni che Via Arenula sta facendo rispetto alla stagione del Conte 1 e 2, in cui si sono prodotti nelle carceri più proteste, pestaggi e torture dei precedenti vent’anni. Come ricorda il ventennale di Genova, la mano libera agli ultimi della catena di comando arriva dalle coperture assicurate a monte. A Cartabia è arrivato ieri un reclamo circostanziato, un vero e proprio dossier sulla strage dei nove detenuti morti dopo la rivolta nel carcere di Sant’Anna a Modena.
A redigerlo, un detenuto che sarebbe uno dei cinque testimoni della morte del 40enne Salvatore Cuono Piscitelli. Descrive, con parole semplici, il clima di terrore nel quale sono state mandate – durante la gestione Basentini-Bonafede – le “squadrette”. Tra le righe della testimonianza il detenuto parla di «Squadrette che effettuano spedizioni punitive cella per cella, composto da una decina di agenti». Non è una testimonianza priva di dettagli, sfortunatamente per i dirigenti Dap. Vi si legge: «Molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i “tondini in ferro pieno” che si usano per la battitura nelle celle. Alcuni di questi detenuti a cui non fu dato nessun supporto medico, nel giro di pochi minuti morirono».