Eccoci alla terza parte della metafora dell’immagine nazionale (per noi brand Italia) raccontata come una mela. Non l’apologo delle due parti simmetriche o del morso di Adamo. Ma quello più controverso del fuori (bello, rosso, colorato) e del dentro (legittime differenze, con parti dolci e magari parti andate a male). Le narrazioni che si producono (parole, immagini, dicerie, azioni in cui la forza del destino litiga con l’immenso particolare della condizione e della presunzione umana) alimentano o smentiscono l’immagine generale astratta. In certe cose uniformandosi, in altre differenziandosi. I temi scelti (nell’affollamento di notizie plausibili del periodo) da commentare nella seconda parte di questo articolo, erano una montagna. Ridotta ora giornalisticamente a otto notizie. Cominciamo dalla politica.

L’andamento della presidenza italiana del G7

L’architettura di una organizzazione di eventi connessi al negoziato diplomatico (11 riunioni ministeriali, attorno al summit principale, tra marzo e novembre) appartiene a una cucina istituzionale che da anni va a patti con un bisogno di “comunicazione di cornice” che alla fine investe obiettivi poco strategici. Ma in cui il saldo appartiene ad una chimica di influenze, alleanze e decisioni che resta sottotraccia. Ovvero riservata agli addetti ai lavori. Gli “addetti ai lavori” sanno che su molti nodi le posizioni di partenza sono discordanti oppure ci sono le elezioni nazionali a determinare una profilazione “distratta”.

In due parole l’obiettivo della presidenza di turno diventa quello di garantire minimi comun denominatori, in questo caso cercando una sinergia generale con l’altra presidenza di turno, quella tedesca del G20. Quindi al di là delle derivate logistiche di immagine (Taormina, Puglie, Borgo Egnazia) la pagella degli addetti ai lavori in ordine all’obiettivo italiano di “costruire le basi di una fiducia rinnovata” (gergo ufficiale) è di una realistica sufficienza. Il “protagonismo” di cui ha parlato Giorgia Meloni va soprattutto ricollocato nel tradizionale appeal del Bel Paese. Con un fatturato prioritario di foto opportunity, non di grandi mediazioni diplomatiche.

Giorgia Meloni nell’America al voto

Qualcosa in più di una foto opportunity è invece l’idillio Meloni-Musk. Parlo del Citizen Award concesso dall’Atlantic Council (lobby che promuove la leadership americana) a personaggi distinti a difesa di valori che gli americani considerano importanti. Come per Draghi (che scelse di essere premiato da Henry Kissinger), Giorgia Meloni ha scelto Elon Musk. È arrivata alla Ziegfield Ballroom vestita con un lungo abito nero, al braccio del consigliere militare Franco Federici in alta uniforme e i media hanno registrato un’accurata sceneggiatura di accreditamento (speech compreso), ma gli analisti hanno provato a interpretare l’evento e le contraddizioni sottintese. Allo stato la spiegazione più credibile – che può svilire appunto imbarazzanti contraddizioni – è il convincimento della premier italiana del prossimo successo elettorale di Trump. Da qui il rallentamento sull’allineamento a Biden e l’avvio della manovra di attracco alla corazzata trumpiana. La voce (propagandata dal governo come straordinaria immagine internazionale) va letta con i suoi chiaroscuri.

Il negoziato italiano nel quadro della nuova legislatura europea.

Questo è stato il fronte più difficile perché per l’intreccio di ragioni “oggettive” (demarcazioni tra maggioranza e opposizioni, ambiguità interne ai gruppi parlamentari, interessi nazionali da raccordare sempre e su tutto) la “doppiezza” strategica della linea di governo (in Italia a regolare conti con l’egemonia a destra, in Europa a regolare conti con paesi forti e fondatori) non ha potuto essere nascosta ma ha obbligato Meloni a non negoziare come premier ma come presidente dei conservatori europei. Alla fine, non stando in “maggioranza” ma rivendicando un esito all’altezza del peso e dell’influenza italiana. Posizione sofferta e a ostacoli, rispetto a cui la designazione di Raffaele Fitto (sostenuta anche dal PD italiano) ha salvato bandiera e interessi, anche nel quadro di una crisi negoziale di Francia e Germania. Scelta che nel Palazzo si valuta come il rischio minore. Anche qui realismo contro chiacchiere.

La linea della premier italiana di intrecciare sempre la reputazione dell’Italia con la sua immagine personale.

Questo terzo aspetto – inteso qui come una trasversalità su tutta l’attuazione delle politiche, dei comportamenti e della comunicazione, che è quello che la premier rivendica più a suo merito e a sua impronta – potrebbe rivelarsi invece come la gamba più traballante del tavolo. Perché alla fine la fisionomia della “leader” che tiene insieme appunto radici, scelte, gruppi dirigenti, stile, strategia di immagine e forme di esercizio dei ruoli, tende a schiacciarla più su una Evita Peron del nostro tempo che su una Margareth Thatcher da terzo millennio. Non c’è spazio per i dettagli.

Ma è proprio su questo punto che il fattore “immagine” nel dossier “politica” perde punti e apre interrogativi in ordine ad una evoluzione limitata della storia dell’underdog dalla Garbatella a Palazzo Chigi. Fermo restando che questa evoluzione risponde ad una domanda sociale in Italia e nel mondo più spinta verso caratteri demagogici e populisti e per questo con esiti di tenuta del consenso che la giustificano. L’episodio Meloni-Musk (di scuola berlusconiana) è parte della commistione senza remore tra immagine personale e immagine nazionale, vietata nei codici etico-comunicativi della “prima Repubblica” e tutto sommato più in voga nei regimi autoritari che nelle sane democrazie.

Stefano Rolando

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