La formula 1+1=3
Buonaguro, il virologo del Pascale: “Vi racconto com’è nata con Ascierto l’idea di usare il Tocilizumab”
Le buone idee nascono spesso da una riflessione notturna. È successo così anche per il Tocilizumab, il farmaco proposto dal gruppo di Paolo Ascierto, direttore dell’unità di immunologia clinica del Pascale di Napoli. “Erano le due di notte e come talora accade stavamo chattando sul nostro gruppo di Whatsapp. Ci chiedevamo cosa potessimo fare per contribuire scientificamente nella lotta contro il Coronavirus. Ed è stato in quel momento che è venuto spontaneo dire che la parte finale dell’infezione Covid-19 è dovuta alla tempesta citochinica, come avviene anche in altre infezioni. Così ad Ascierto è venuto in mente il Tocilizumab che si usa per trattare le complicanze respiratorie che si sviluppano in corso di terapia in alcuni pazienti oncologici”. A raccontare quel momento che sta cambiando le sorti dell’emergenza è Franco Maria Buonaguro, Direttore della Struttura Complessa di Biologia Molecolare e Virologia Oncologica dell’Istituto Pascale.
1+ 1 = 3 – La forza di questa intuizione sta proprio nella multidisciplinarietà di tutto il gruppo del Pascale. “È una chat interna dove ci sono esponenti delle varie branche, dalla radiologia alla chirurgia, e a volte ci stuzzichiamo a vicenda su argomenti che saranno sviluppati il giorno successivo. L’interazione di competenze diverse permette di elaborare idee e concetti difficili da affrontare se uno rimane solo nella sua superspecializzazione”. Il medico virologo cita una storia della tradizione campana: “Già nel 1400 la Campania era famosa perché riusciva a risolvere problemi di matematica, come il triangolo di Tartaglia, perchè si lanciavano delle sfide pubbliche che venivano puntualmente vinte grazie all’interazione di competenze diverse”. Un modus operandi arrivato con successo fino ad oggi e che il Direttore Generale Attilio Bianchi ha fatto proprio definendolo “1+1=3”. “Vuol dire che la messa in comune di peculiarità diverse e complementari tra di loro possono dare dei risultati incredibili, come quello che stiamo ottenendo adesso con il Tocilizumab”.
IL TOCILIZUMAB – La “tempesta citochinica” di cui parla Buonaguro consiste in una eccessiva risposta del sistema immunitario stimolato dal virus con una sovraproduzione di sostanze mediatrici dell’infiammazione che finiscono per indurre un ulteriore danno al polmone anziché favorire la guarigione. Ed è qui che interviene il Tocilizumab. “Io non lo definirei un farmaco anti artrite reumatoide che quasi sminuisce l’uso da parte del nostro gruppo di questa molecola. È un farmaco che blocca la risposta immunitaria in eccesso, cioè quella che determina un problema patologico ed è per questo che si utilizza nelle patologie autoimmuni. Serve a bloccare una risposta immunitaria eccessiva, come avviene anche per il Coronavirus. Ridotto a semplice ‘anti artrite reumatoide’, sembra che siamo dei folli a volerlo usare per combattere le fasi severe della COVId-19”.
Dopo l’intuizione è scattata la corsa alla messa in pratica. Il gruppo napoletano ha contattato più volte quello cinese, parlando in inglese e anche in cinese con l’aiuto di una interprete che lavora alla radioterapia del Pascale, per l’accoglimento dei medici cinesi durante il loro stage. “Il mercoledì notte chattavamo alle 2, il giovedì mattina abbiamo visto come muoverci con le aziende farmaceutiche, il venerdì abbiamo stilato un piccolo protocollo e subito consultato il lavoro scritto dal gruppo cinese non ancora pubblicato. Poi li abbiamo chiamati al telefono e fatto insieme tutte le riflessioni necessarie. È stata una lotta contro il tempo e il fuso orario”. Buonaguro racconta la gioia dei medici cinesi di quel giorno perché dopo mille pazienti curati ne erano rimasti solo 5: “Questi uomini stanno davvero lottando contro il virus”. Così poi già il sabato è iniziato il trattamento dei pazienti con il Tocilizumab. In soli 3 giorni il gruppo è riuscito a partire con la sperimentazione. “E altrettanto da record sono state le autorizzazioni da parte dell’AIFA: in 10 giorni siamo riusciti ad avviare una procedura che normalmente richiede almeno 3 mesi elaborata dal dottor Francesco Perrone”. Lo studio va avanti, consapevoli che si tratta di una terapia che cura i sintomi della malattia e che non ha nulla a che vedere con l’ipotesi di un vaccino, che va prodotto studiando il virus stesso.
E SE IL TOCILIZUMAB FINISSE? – “Tutto può finire – continua Buonaguro – ma contemporaneamente anche se con caratteristiche diverse ci sono anche altri due anticorpi monoclonali che riescono a bloccare l’interleuchina 6. E inoltre si potrebbero individuare lungo il percorso biomolecolare di questo processo altri punti e altre molecole con cui poter intervenire. Questa scoperta ha aperto un filone nuovo di interventi per bloccare la tempesta citochinica. Quello che noi non sapevamo era se questo trattamento portasse complicazioni, favorendo il virus come succede con il cortisone e aumentasse la severità della malattia. Per questo è stato fondamentale contattare i cinesi: avere la certezza che il Tocilizumab non avrebbe minato la sopravvivenza di chi si ammala”.
L’AVIGAN – Sull’Avigan, il farmaco miracoloso di cui si parla tanto, che avrebbe risollevato le sorti del Giappone, il virologo resta cauto. “Va attenzionato – spiega – L’FDA Americana ha già autorizzato il suo utilizzo per patologie influenzali. C’è stato qualche problema di genotossicità durante la sperimentazione sui topi. Ma questi studi vanno presi con le pinze: bisogna ancora vedere come migliorare la dose, capire se si può somministrare in tutte le fasce d’età. Ma il fatto che gli americani ne abbiano approvata la somministrazione, e loro sono sempre molto stringenti su questo, mi rassicura molto. So che questo farmaco è stato utilizzato anche in Cina e che da lì è partito anche uno studio clinico per testarlo. Certamente è un farmaco che come tanti altri antivirali potrebbe essere usato in una fase molto precoce della malattia, certamente non quando un paziente viene intubato”.
CI SI PUO’ RIAMMALARE DI CORONAVIRUS? – “Si, ma di un altro ceppo”. Il virologo spiega che il sistema immunitario di solito riesce a sviluppare una memoria duratura nei confronti di virus a DNA. “Questi sono più stabili perché il DNA è composto da una doppia catena di acidi nucleici la cui sequenza tende a conservarsi”. Per questo motivo gli antigeni virali che risultano dalla trascrizione proteica tendono a essere molto simili tra loro se non uguali e ciò facilita la produzione di anticorpi che garantiscono una memoria a lungo termine che impedisce la reinfezione. “Il Coronavirus invece è un virus con genoma ad RNA, come quello dell’epatite C, molto meno stabile e tendente alla mutazione continua”. Questo significa che il sistema immunitario ha più difficoltà a elaborare anticorpi che possano proteggere da un nuovo attacco. Ecco perché è anche più complesso trovare un vaccino come già avviene per la classica influenza: gli antigeni variano e di conseguenza gli anticorpi non riescono a neutralizzare i nuovi virus ed a proteggerci da una nuova infezione.
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