Racconto, qui, il “mio” Leonardo Sciascia. Lo scrittore affermato che un giorno si trova tra le mani la lettera di un ragazzetto che gli propone di collaborare a una rivistina messa su alla bell’e meglio; e risponde che lo farà volentieri: perché è giunto il tempo di fare quello che Seneca diceva dovessero fare gli schiavi: cominciare a “contarsi”; e a onta del preteso pessimismo che gli si vuole incollare, si dice sicuro che si scoprirà, con nostra sorpresa, «d’essere più di quanti si crede»; isolati forse, ma non soli, e comunque sufficienti a opporre un’“opinione” alle “opinioni”. Racconto la persona che paziente insegna – letteralmente – a quel ragazzetto come leggere e capire I promessi sposi di Manzoni e William Shakespeare; che interrompe il suo lavoro, quando irrompo nella sua casa palermitana per chiedergli un paio di cartellette da usare per prefazione a un libro, Storie di ordinaria ingiustizia, che con molto anticipo raccontava le sventure di tanti signor “nessuno” che hanno patito calvari analoghi a quello di Enzo Tortora; e sono un paio di cartelle scritte in mezz’ora dense e sapide come solo lui sa; scrivo di un uomo “buono” nel senso più ampio e autentico del termine, che cerco di raccontare in un libro pubblicato da poco: Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto editore). Libro scritto con l’obiettivo di ragionare su un aspetto che si tende – non a caso – a omettere, ignorare: il suo essere stato scrittore politico, immerso consapevolmente e totalmente nella realtà; il suo aver voluto sempre fare politica in senso etico: il cosciente mescolare politica ed etica, nel tentativo di perseguire conoscenza e verità. Il motivo per cui, pur deluso da precedenti esperienze, dopo aver rifiutato gli inviti a candidarsi nelle liste del Psi e del Pli, accetta di farlo in quelle del Partito Radicale: un partito a cui era sempre stato vicino, come Elio Vittorini, Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini. Ma a candidarsi non ci pensa proprio, ed è ben intenzionato a dire un cortese “No, grazie” a Pannella, volato a Palermo per convincerlo. Vecchia volpe, Pannella sa trovare la chiave giusta: «Non ti chiediamo di aderire al nostro programma. Siamo noi radicali che aderiamo al tuo». È fatta: accende l’ennesima sigaretta, con lo sguardo osserva le volute del fumo; infine, passa dal “Lei” al “Tu”: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto».
Scrivo di uno scrittore che “segna” come pochi altri (Pasolini, Italo Calvino, Vittorini, Silone, Mario La Cava, Mario Soldati, Piero Chiara, Alberto Moravia), il secondo Novecento letterario italiano.
Un ministro dell’Istruzione davvero dell’Istruzione ministro, avrebbe invitato tutte le scuole a dedicare qualche ora di lezione per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Leggerle a voce alta, e commentarle, discuterle, criticarle, magari. Per Sciascia un efficace impegno anti-mafia, era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino. Non sorprende che né il ministro né qualcuno dei suoi consiglieri abbia avuto questo riflesso. Il contrario, sì, quello avrebbe sorpreso.
Parlo insomma dello Sciascia “ossessionato” dal problema della giustizia, e di come viene (malamente) amministrata. Nel testo che mi affida, scrive dell’errore giudiziario; raccomanda di tener sempre a mente il monito di Manzoni: «…quasi sempre si tratta di ‘errori’ ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: ‘trasgredir le regole ammesse anche da loro… se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa’…».
Per dare spiegazione di come l’amministrazione della giustizia sia quella che è, spiega che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…».
Merita, a questo punto, d’essere citato un passaggio che si ricava da Una storia semplice, l’ultimo libro, scritto con grande fatica, straordinariamente lucido. Un vecchio professore è interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente.
«Posso permettermi di farle una domanda?…Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore.
Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». Può bastare, per comprendere l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come (e da chi) viene amministrata.
Molti si sono detti stupiti che Sciascia si sia “inteso” con un personaggio come Marco Pannella, e in sintonia con il Partito Radicale. Stupore senza fondamento. In più di un’intervista Sciascia dice che di volta in volta vota per il partito che più gli sembra in quel dato momento opportuno, ma che il suo voto più bello era stato, negli anni Sessanta, a una lista dello Psiup perché vi erano inseriti candidati radicali. Il perché di questa scelta è condensato in una dichiarazione del maggio 1979: «Parlando di politica, Borges diceva – in un’intervista di 15 anni addietro – che se ne era occupato il meno possibile, tranne che nel periodo della dittatura. Ma quella – aggiungeva – non era politica, era etica. Al contrario, io mi sono sempre occupato di politica; e sempre nel senso etico. Qualcuno dirà che questa è la mia confusione o il mio errore: il voler scambiare la politica con l’etica. Ma sarebbe una ben salutare confusione e un ben felice errore se gli italiani, e specialmente in questo momento, vi cadessero. Io mi sono deciso, improvvisamente, a testimoniare questa confusione e questo errore nel modo più esplicito e diretto del far politica; e col partito che, a questo momento, meglio degli altri, e forse unicamente, lo consente».
“Semplice” (si fa per dire) la “filosofia” di Sciascia: «Bisogna rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto fra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane, rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata».
Leonardo “riposa” in una tomba che ha voluto semplicissima, accanto a quella della moglie Maria Andronico; è alle porte del cimitero di Racalmuto. «Ce ne ricorderemo di questo pianeta», è l’epigrafe che lui ha voluto. Una frase dello scrittore francese Auguste de Villiers de l’Isle-Adam.
Il razionalista, l’illuminista, accetta così di partecipare alla scommessa di Blaise Pascal; al tempo stesso avverte che una certa attenzione questo mondo, questa vita, la meritano: in definitiva, un’ipotesi, una possibilità di sopravvivenza dopo la morte. Un “qualcosa” – è l’amico Bufalino a notarlo – legata a una insopprimibile volontà di memoria: finché saremo, in qualunque forma e natura, noi ricorderemo; e solo se ricorderemo, saremo. Noi siamo la capacità di ricordare, siamo memoria.
Già in questa sola frase c’è molto, c’è tanto – e dell’essenziale – di Sciascia.
L’uomo, l’artista: cerchiamo di vedere l’uno e l’altro (ammesso che si possa scindere l’uno dall’altro) con gli occhi di chi gli voluto bene: la figlia Annamaria; i nipoti Fabrizio e Vito. «Lo scrittore coincideva con l’uomo», dice Annamaria. «Un esempio da seguire. Una persona che dettava le regole senza parlare, non aveva bisogno di rimproverare. Bastava uno sguardo. Era una persona allegra. Partecipava a tutte le cose della famiglia. Un costante punto di riferimento. Lo hanno dipinto come taciturno, ombroso, silenzioso; ma a casa mio padre parlava molto, raccontava fatti, aneddoti. Andava al circolo di Racalmuto, seguiva tutte le vicende, poi ce le raccontava; e anche a Caltanissetta e poi Palermo… lui è cresciuto tra donne: unico uomo con tre zie e sei donne. Un universo femminile, e dunque amava i racconti, i pettegolezzi, tutto questo gli piaceva…».
Fabrizio, Vito, vostro nonno vi voleva molto bene. Lo si capisce a guardare le molte fotografie in cui comparite con lui, lo sguardo, i piccoli gesti: si indovina che con voi aveva un rapporto speciale… Per voi chi era quest’uomo? Vorrei approfondire questo vostro legame… Fabrizio: «Può sembrare banale, ma per me, era un uomo come tanti altri, anche se al tempo stesso era palesemente diverso. Ecco: forse questa tipologia di intellettuale, oggi è molto difficile da trovare: persone capaci di estrapolare dagli eventi della società idee e concetti illuminanti; e al tempo stesso si comportavano come le persone normali. Mi veniva a prendere all’uscita della scuola, giocava con me… Le cose, insomma che fa un nonno con suo nipote. Al tempo stesso, vivendo in quella casa respiravo un’aria diversa; capitava di sentire discorsi con le persone che venivano a trovarlo, che certamente a 10-12 anni si capiscono e non si capiscono; ma in qualche modo, comunque, ti restano impressi, come se si appiccicassero alla pelle… Quanto al rendermi conto che mio nonno era Leonardo Sciascia: chissà, forse ne sono stato sempre cosciente. Sulla sua scrivania, per esempio, un posto d’onore l’aveva la fotografia di Pirandello. Mio nonno lo considerava una specie di padre. Già questa era una cosa fuori dal comune; che però io ho vissuto come normale. Tra noi si parlava anche in dialetto; e non solo il nostro, anche in altri dialetti. Lui mi leggeva le poesie di Trilussa, in romanesco: poesie, per inciso, che sono la perfetta metafora dello sfacelo di questo paese, di questo continente. Ho dei bei ricordi. I primi anni, li ho passati dai nonni, mamma e papà lavoravano, per un certo periodo mio padre a Catania; gran parte della settimana si stava con i nonni… c’erano due case, la grande e la piccola, e ogni tanto mi confondevo. Mio nonno aveva una collezione di sigilli, custoditi in una vetrina stretta e lunga, me li faceva toccare. Una passione che avevamo in comune. Nella lettera-testamento che ha lasciato, dispone che siano dati a me; non ho mai avuto il coraggio di toglierli da quella bacheca…».
Vito: «Ai miei occhi appariva come una persona che conduceva una vita molto semplice. Siamo qui, nelle campagne di Racalmuto dove lui trascorreva le vacanze estive: si facevano le passeggiate nei campi, si raccoglievano fichi ed asparagi. Era una vita scandita da ritmi molto normali. Mio nonno era molto nonno: amava stare con noi nipoti; ci raccontava storie al focolare. Io chiedevo quelle con i briganti, dove c’era azione, avventura; e lui mi raccontava dei briganti del luogo. Nella vita domestica aveva fissato delle regole chiare, precise: nel primo pomeriggio, per esempio, non si dovevano fare schiamazzi. In generale, non amava la confusione. Però non aveva esigenze particolari. Per esempio, quando lavorava non ci imponeva il silenzio, la vita della casa procedeva normalmente. Capitava che andassi a vederlo mentre scriveva, nella sua stanza; lui non ci faceva particolarmente caso. Però non gli piaceva il disordine, il caos, lo schiamazzo».
Giunti a questo punto, penso che per ricordare come gli sarebbe piaciuto essere ricordato, la cosa migliore sia quella di leggere i suoi libri; e/o rileggerli. Tutti, in ordine di pubblicazione, o come vengono, non importa. Sono un prezioso contravveleno; per dirla con un poeta francese, René Char, costituiscono una ‘fantastica amicizia’ da opporre ai “tempi dei monti furenti” che tocca vivere e patire.