Ultimamente, molte sono state le occasioni e le ragioni per puntare i fari sui centri di detenzione per stranieri: il clamore e le nocive polemiche attorno al “caso Apostolico”, a margine del quale le Sezioni unite hanno appena sollecitato la Corte di giustizia UE ad esprimersi sulla disciplina del trattenimento dei richiedenti asilo (come innovata dal decreto Cutro); la volontà di costruire nuovi centri di preparazione al rimpatrio, ostracizzata dagli amministratori locali (anche di centrodestra) e sfociata nella stipula del controverso patto tra Giorgia Meloni ed Edi Rama per creare alcuni C.P.R. e punti di crisi in Albania. Soprattutto: i contenuti di alcune inchieste giudiziarie e giornalistiche, che hanno mostrato le condizioni di vita all’interno di tali strutture contribuendo a spiegare i tanti suicidi tra i loro “ospiti”.

È un bene che il livello di attenzione si sia alzato. E sarà un bene che resti alto. Infatti, almeno dichiaratamente, la politica europea e quella nazionale puntano molto sul confinamento dei non-cittadini: di quelli irregolari (destinati a un rimpatrio spesso impossibile da attuare) e dei richiedenti asilo, specie se provenienti dai cosiddetti Paesi terzi sicuri (etichetta data anche a Paesi tutt’altro che sicuri).

Le anomalie della disciplina

Tale scenario enfatizzerà le tante anomalie della disciplina già in vigore, e i cui tratti salienti è utile ricordare. Innanzitutto, il trattenimento (ipocritamente, la legge non usa mai la parola detenzione) può attingere persone che non hanno commesso alcun reato, e che vengono recluse – nella prospettiva di essere allontanate dall’Italia e dall’UE – in luoghi dai quali è impossibile uscire (e dunque diversi dai centri di accoglienza: distinzione non sempre chiara all’opinione pubblica). L’ingresso nei C.P.R. non è decretato da un giudice penale, ma dall’autorità di polizia, la cui scelta è sottoposta alla convalida del giudice di pace civile e non del tribunale (a meno che lo straniero non presenti istanza d’asilo, con una differenza poco persuasiva, visto che in entrambi i casi la posta in gioco è sempre la libertà personale). Contrariamente a quanto preteso dalla Costituzione, la cornice legale non regola neppure gli aspetti primari della vita nei centri, che risulta dunque governata da un’opaca commistione tra poteri pubblici e soggetti privati (gli enti gestori): i quali puntano al risparmio, con ricadute drammatiche in primis sulla salute degli ospiti.

Il protocollo Italia-Albania

Il quadro normativo appena descritto non è nuovo (come non nuove sono le degradazioni delle prassi, che frustrano le già scarne garanzie comunque riconosciute dalla legge). Esso si appresta però a peggiorare. Ciò avverrà in forza di alcune innovazioni già entrate a regime, tra cui spicca l’aumento della durata massima di permanenza nei C.P.R., portata a 18 mesi. Ma anche in forza delle riforme in cantiere: infatti, se da un lato l’Unione europea mostra di mirare alla detenzione su larga scala dei nuovi giunti (onde impedire i movimenti secondari verso Paesi non di primo ingresso), dall’altro, dopo il placet della Corte costituzionale di Tirana, procede spedito il percorso inaugurato con la stipula del protocollo Italia-Albania.

Il dubbio sul diritto di difesa

Su tale percorso non va abbassata la guardia: basti pensare che – fra i suoi tanti difetti – la legge di ratifica del patto (appena varata) non chiarisce come sarà garantito il diritto di difesa dei migranti soggetti alla giurisdizione extraterritoriale italiana (in proposito, si consideri che le udienze di convalida possono celebrarsi con lo straniero in videocollegamento dal centro). Più in generale, e al di là del giudizio politico sui suoi contenuti, va segnalato il probabile effetto boomerang dell’accordo, che, oltre a generare ingenti spese, vedrà condurre in Italia molte delle persone – quelle inespellibili – già detenute oltre confine, prevedibi mente esacerbate dalla cattività nelle strutture albanesi (che potrà appunto protrarsi per un anno e mezzo).

Elena Valentini

Autore

Professoressa associata di procedura penale