L’inviato del Corriere della Sera vede i giocatori azzurri “sollevati” dopo l’esclusione dagli europei. Il direttore del Corriere dello Sport parla di “una quindicina di zombie” che il Ct “ha fatto, disfatto e mandato al massacro”. È solo calcio? Ma quando mai. Se lo fosse, oggi parleremmo di un’azienda in rosso e di dimissioni. Non di una Figc e di un allenatore che si assolvono e si auto-rilanciano. Lo psicodramma italiano ha radici più profonde, ed è da ricercarsi in quell’ossessione narcisista e individualista che sovrasta ogni altra valutazione. Non a caso, si vince negli sport dove si resta razionali, dove si ha coscienza dei propri limiti e la squadra viene sempre prima dei singoli. Si perde, invece, nella suite milionaria dove la testa di chi comanda imperversa, pontifica, esorbita di continuo.

Le congetture del Ct diventano filosofie dell’universo, incomprensibili persino ai cronisti. Formazioni e schemi cambiano di continuo perché l’estro e l’arte vogliono così, e si pensa a imporre il proprio gioco pur non avendolo, invece di provare a contenere quello degli altri, regolarmente più umile e lineare. La testa del Narciso prevale su quella di chi scende in campo e quindi dovrebbe restare con i piedi per terra, perché è con quelli che si vince. Ma da mezzo secolo, da Valcareggi a Bearzot, da Lippi a Mancini, l’Italia del calcio ha vinto “all’italiana”, cioè con lo spirito di sacrificio e la coesione interna, e soprattutto l’allegria di scendere in campo. Il calcio non è mai solo calcio. I suoi vizi e le sue virtù provengono dalla vita reale, e spesso la condizionano. Quando, nel 2016, l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli si accostò con una sua associazione alle elezioni comunali, disse “non conta chi vince, conta che presenti alla città una squadra di 100 persone affidabili e coese”. Vinse Virginia Raggi, e nessuno ricorda un altro nome oltre al suo.

Ora non si sa bene dove sia finita, certo non nelle nostalgie dei romani. Del resto, solo nell’ultimo decennio sono stati almeno tre i leader che hanno commesso l’errore di presumere da sé stessi troppo, fino a sfracellarsi. Iniziò Matteo Renzi, brillantissimo fino a un attimo prima di sentirsi solo contro il destino. Immaginò un’Italia e una sinistra modernizzate e toccò il 40% dei voti. Ma poi cominciò ad aver paura anche delle sue ombre, perché nessuno specchio può eliminarle del tutto. Concepì la riforma istituzionale come un referendum sulla sua persona. Risultato, fine della nostrana primavera riformista e, oggi, naufragio del più bel progetto per l’Europa, gli Stati Uniti. A Matteo Salvini non andò meglio: toccò il 33%sull’onda di un pirotecnico populismo anti-immigrazione e anti-Europa, ma poi arrivò anche per lui la sensazione di avere il mondo in mano. In realtà, in mano aveva solo un mojito, ed ora eccolo qui a ringraziare San Vannacci per essere ancora in sella. E Beppe Grillo? Voleva abolire in un colpo povertà e corruzione, non sapeva più dove mettere i voti. Oggi, è indigesto persino a Giuseppe Conte.

Eppure, erano tutti e tre partiti da zero. Un po’ come Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Giorgia ha raggiunto il potere dopo una lunghissima gavetta, Elly perché, come lei stessa disse, “non mi hanno vista arrivare”. Bene, sarà per quel buon senso femminile che mancò alla Raggi, le due signore che alle scorse europee insieme hanno preso più della metà dei voti degli italiani, non sembrano voler ripercorrere gli errori dei loro colleghi maschi. Meloni si è concessa l’ormai leggendario “sono una donna, sono una madre, sono italiana”, per il resto parla poco, promette pochissimo e quasi sempre lo fa a nome del governo. Schlein dice sempre “noi”, e urla solo perché la sua passione è la piazza. Certo, non toccano le vette della semantica spallettiana: “Il gioco è fluido. Si tratta di cercare quegli spazi lasciati dall’avversario, perché lo spazio non è più tra le linee. Lo spazio è dove l’altra squadra lascia delle lacune”. Ma almeno giocano nella realtà.

Sergio Talamo

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