Il congresso di Azione ha confermato che lo spazio per un’autonoma forza riformista in Italia c’è. Ha mostrato una cultura politica all’altezza delle sfide del tempo presente: dal conflitto russo-ucraino alla sicurezza europea ai dazi americani; e, scendendo per li rami domestici, dalla transizione energetica (con il nucleare) alla riforma della giustizia ai nodi storici della sanità e dell’istruzione. Per altro verso, a Carlo Calenda va riconosciuto di non essere afflitto dalla sindrome della “governite“, ossia da quella patologia del potere che subordina il “governare per cosa” al “governare con chi” (a prescindere, come direbbe Totò). Una patologia che ha segnato fin dalla sua nascita quel “campo largo” che si illude che possano coesistere tra loro, più o meno in amicizia, il diavolo e l’acqua santa.

Le forti diseguaglianza

Forse l’invito a riunirsi rivolto ai “volenterosi” di FI e del Pd è “mission impossible”. Ma, al di là di questo, resta una domanda: quali sono i soggetti sociali a cui si pensa per dare anima e corpo a un “rassemblement” liberaldemocratico? Su questo punto mi sia consentita un’osservazione, che richiede però una breve premessa. Nonostante le sue forti diseguaglianze distributive e territoriali, non siamo un Paese povero. Non è povero un Paese in cima alle classifiche mondiali per numero di smartphone, in cui un’auto su dieci è un suv, otto italiani su dieci vivono o vanno in vacanza in case di proprietà, in cui la ricchezza privata è pari a sei-sette volte il PIL. Certo, siamo anche un Paese che vanta record non invidiabili: salari, tassi di produttività e investimenti in ricerca tra i più bassi in Europa; debito pubblico, evasione fiscale, economia sommersa e disoccupazione giovanile abnormi.

La sinistra non può chiamarsi fuori

Beninteso, l’elenco dei nostri primati, positivi e negativi, andrebbe ben altrimenti circostanziato, ma non c’è dubbio che la narrazione prevalente nella sinistra “degli ultimi” è quella di una nazione quasi sull’orlo del baratro. Ebbene, se la grammatica del populismo ha fatto breccia nelle classi popolari, la sinistra e lo stesso sindacato confederale non possono chiamarsi fuori. Perché si tratta di un processo che si delinea già alla vigilia della Seconda Repubblica, colpevolmente sottovalutato da una cattiva lettura di quel mutamento del sistema produttivo che per convenzione viene chiamato postfordismo. Può una forza riformista rinunciare a un radicamento nelle molteplici forme del lavoro subordinato contemporaneo, manuale e intellettuale? I fatti ci invitano a non cadere nel trabocchetto che colloca l’impoverimento relativo del ceto medio in scenari da Terzo mondo. Ma ci invitano anche a non snobbare i rischi di nuove drammatiche fratture nel mondo del lavoro.

Le donne emancipate

Sempre i fatti, ad esempio, ci dicono che il lavoro servile svolto dalle donne immigrate ha permesso alle donne italiane di emanciparsi, almeno parzialmente, senza però mutare l’assetto tradizionale della famiglia e del welfare. E ci dicono che i mestieri meno qualificati si stanno sempre più etnicizzando, nell’industria e nei servizi al Nord, nelle campagne al Sud. Si delinea così una situazione in cui i gradini inferiori della scala sociale sono quasi segregati su base etnica. Questo per dire che se si snobbano (un salario minimo non fa primavera) gli interessi di una realtà che riguarda pur sempre circa i due terzi degli occupati, non si va da nessuna parte. Sarebbe un errore delegare tale questione, che un tempo si chiamava questione sociale, ai partiti che se la intestano con una retorica antimeritocratica e assistenzialista.