Per l’America la Cina è il grande nemico che sta celebrando il XX Congresso del Partito comunista. Ipnotizzata dalla “trappola di Tucidide”, l’èlite di Washington dà per inevitabile lo scontro tra un impero del bene, che a fatica resiste al vertice, e un paese in ascesa, che cerca di conquistare l’egemonia. Che tipo di regime è però quello di Pechino? Sebastian Heilmann del Mercator Institute for China Studies è uno dei pochi conoscitori di cose cinesi che si avvale delle fonti primarie. Nel suo volume (China’s Political System, Rowman & Littlefield, 2017) registra la personalizzazione del potere nelle mani di Xi Jinping, evitando però l’uso di categorie più polemiche che esplicative come quella di totalitarismo.
Puntualizza Heilmann: «L’attuale sistema politico è talvolta caratterizzato ancora come totalitario. Questa affermazione non è però sostenibile sulla base dei criteri di Linz. Nonostante la concentrazione politica del potere sotto Xi, il partito-stato cinese non può essere considerato un’entità autonoma e monolitica. Si tratta infatti di un conglomerato di organizzazioni e regioni, ognuna delle quali vanta delle proprie tradizioni, interessi, regole interne e specifici legami con la comunità imprenditoriale, la società e i partner internazionali. La conformità politica forzata non sembra praticabile in questo sistema politico continentale».
Il ruolo dell’ideologia marxista-leninista è evocato dal potere cinese. Si tratta però di un marxismo che interessa non per gli aspetti filosofici (come avveniva anche nel Pci), ma per la sua capacità di traduzione dei concetti in categorie di analisi realistica. Il ruolo chiave nei vertici del partito, come membro prima del Politburo, a partire dal 2012, e poi del ristrettissimo Comitato permanente, dopo il 2017, è svolto dal professor Wang Huning, consulente strategico del segretario. Lo studioso di politica è l’autore di tutti i principali messaggi programmatico-comunicativi del regime (“sogno cinese”, “società armoniosa”) ed è il classico consigliere dei principi (per l’esattezza, di ben tre segretari diversi). Heilmann lo descrive come “un’‘éminence grise’. Dagli anni 90, Wang è rimasto saldamente in disparte. Non mantiene contatti con ex amici e colleghi a Shanghai, si astiene dall’esprimere opinioni pubbliche, non rilascia interviste e non incontra stranieri. È un classico e quasi intoccabile consigliere strategico privato dei leader, “i segretari lo ritengono degno di fiducia e lui lavora tranquillamente dietro le quinte della politica di alto livello” (p. 176).
Uno dei principali scritti di Wang Huning (America Against America, Fudan University) risale al 1991 ed è il frutto di un viaggio in America, dove l’autore ha seguito la campagna elettorale, i duelli televisivi, la vita istituzionale. Nel suo inquadramento del sistema politico si avvale delle “preziose categorie di Theodore J. Lowi”, uno studioso che, contro l’opinione comune, parla di “Seconda Repubblica degli Stati Uniti d’America”, si interroga sul declino del liberalismo (il termine “liberal” diventa spregiativo nella campagna elettorale del 1988 per via delle sue affinità con il keynesismo), mostra il ruolo dei poteri privati e dei gruppi di interesse nella parabola della decisione, valuta una svolta verso una “Juridical Democracy” (un progetto di “Terza Repubblica”), che registra una “depoliticizzazione politica” (i partiti sono diventati “marmaglia”, una pura “massa aggregata”, un “guazzabuglio”) in favore del ritorno alla “rule of law”. Wang Huning segnala, sulla scorta di Naisbitt e Toffler, l’avvento di una società dell’informazione nella quale vacilla l’idea di governo rappresentativo e si annuncia il mito di una “democrazia partecipativa” con referendum, civismo.
Nell’odierna politologia cinese si rimarcano i tratti specifici del sistema politico della Repubblica Popolare, che sfugge alla nozione di “moderno” così come è stata elaborata dagli schemi del “centrismo occidentale”, senza però essere una pura escrescenza negativa o totalitaria. Un recente volume curato da Ning Fang (China’s Political System, Springer, 2020) sottolinea le peculiari caratteristiche storico-culturali di un modello di “democrazia rappresentativa” che, sebbene diverso da quello americano ed europeo (separazione dei poteri e pluripartitismo), rigetta come denigrazione il ricorso alla tipologia di sistema totalitario. Secondo il norvegese Stein Ringen (The Perfect Dictatorship, Hong Kong University Press, 2016), il regime cinese è una “controllocrazia”. Grazie alle tecnologie digitali, il potere passa dalla “leadership collettiva ad un nuovo tipo di governo unipersonale”. Con un regime della sorveglianza, il potere domina in modo sottile e si riproduce con un contenuto ideologico a impronta nazionalista.
Coltivando una cultura del sospetto, Ringen mette in guardia da «un sistema che è diverso dagli altri, una dittatura che funziona così bene e per giunta in un contesto di progresso economico che per certi versi non sembra nemmeno una dittatura». Anche secondo l’americana June Teufel Dreyer (China’s Political System, Routledge, 2018), il sistema politico cinese è impantanato in una eterna “crisi di transizione”. Essa impedisce il passaggio dal governo carismatico alla modernizzazione che avanza con la “routinizzazione del carisma”. La ricentralizzazione del potere, con Xi, mostra l’emergere di un ordine neoautoritario ibrido nel quale i criteri di decisione basati sulle prestazioni economiche orientate alla crescita hanno sostituito l’ideologia come base per la legittimazione del governo del Partito.
Rispetto ai giudizi degli studiosi occidentali, le analisi dei politologi cinesi evidenziano i fattori di stabilità-consolidamento raggiunti dal sistema politico del dragone. Sulla base del valore legittimante del processo storico rivoluzionario della Lunga Marcia, la leadership di partito controlla il potere centrale e definisce un meccanismo di governo “consultativo” e consensuale che è naturalmente diverso dal modello occidentale di uno Stato costituzionale democratico. Wen Xiao (China’s Politics and the Communist Party of China) riconosce che, entro una società industriale moderna, «la politica democratica è una tendenza generale di sviluppo politico. La democrazia rappresentativa è la forma base per la realizzazione della democrazia moderna». Rispetto al modello occidentale, il pluripartitismo competitivo viene rifiutato (“non impiegheremo un sistema di più partiti che ricoprono cariche a rotazione”), gli organi di rappresentanza cinese postulano il governo del Partito e attorno ad esso perseguono una democrazia socialista con il coinvolgimento e la partecipazione alle politiche pubbliche.
Il rigetto del sistema politico occidentale (“troppo frammentato, condizionato dai gruppi di interesse speciale e da eccessivi poteri di veto”) in nome della decisione efficace e rapida non significa che sia corretto “il riconoscimento del processo decisionale del sistema politico cinese come un governo dittatoriale”. Esplicito è lo sforzo dei politologi cinesi di tracciare dei modelli razionali di decisione e selezione delle politiche pubbliche che, nel quadro del comando di partito, contemplino consultazioni, scambi, organi rappresentativi multilivello. Peng Fan (Party and Government Policies in China’s Politics) ritiene che la Cina sia ormai lontana dagli schemi del totalitarismo e anzi “il ‘cancello’ del processo decisionale del governo “si sta aprendo in maniera sempre più ampia e varie opinioni stanno invadendo il sistema, e con questo stanno arrivando anche sfide: come integrare opinioni e preferenze diverse”.
Alle interpretazioni della Cina come dittatura ribatte che il sistema in realtà è più complesso e capace di gestire con efficacia le diverse insorgenze critiche. «Il cambiamento più significativo è avvenuto nel rapporto tra Stato e società. Con lo sviluppo dell’economia di mercato socialista, è emersa un’ampia gamma di forze sociali e lo spazio politico cinese ha subito enormi mutamenti. Il settore privato e le ‘aziende’ hanno sostituito il precedente sistema unitario e sono diventati attori sociali. Ciò significa che gli interessi originariamente uniformi sono evoluti negli interessi di molteplici gruppi e individui». Gestire con le forme politiche del governo di partito l’imponente trasformazione degli attori sociali è una sfida che reclama un dosaggio efficace di apertura e stabilizzazione. E chiaro il divario rispetto ai canoni occidentali. E però l’alternativa alla democrazia in salsa cinese, che esclude la reversibilità del ruolo guida del partito sovrano, non è Westminster ma la comparsa di fenomeni di disgregazione, con poteri privati ostili che conducono un sistema politico continentale al caos. La storia del crollo dell’Urss insegna.
In un raffinato studio (Ten Crises, Palgrave, 2021), Wen Tiejun riflette sul ruolo della nuova politica (ecologica, infrastrutturale, idrica, informatica) per la ricostruzione rurale varata nel tempo della crisi della globalizzazione. «Dopo 20 anni di una mentalità unilaterale pro-capitale, la leadership è passata ad un orientamento politico a favore del benessere delle persone. Per costruire una civiltà ecologica, è necessario abbandonare la cultura della supremazia del PIL. L’economia deve essere reintegrata nella società e la società nell’ecologia. L’idea di civiltà ecologica è una risposta alla crisi sociale e culturale della civiltà postindustriale. Il nuovo paradigma deve mettere in discussione lo sviluppo del capitalismo degli ultimi cinque secoli. È giunto il momento di riflettere sul nostro rapporto con la natura, con la società, con gli altri, con noi stessi. Se la nostra esistenza è radicata nell’ecologia, allora la natura è un fine a se stessa e non un mezzo per altri scopi, come la crescita economica».
La cultura politica cinese è in una fase di ridefinizione dei paradigmi e le categorie della guerra fredda non possono essere recuperate con profitto. Con equilibrio Sebastian Heilmann (p. 426) ammonisce che «qualsiasi richiesta o speranza americana o europea di guidare la Cina dall’esterno nella direzione di una democrazia in stile occidentale non è realistica e dovrebbe essere rimossa dall’agenda: una promozione della democrazia in Cina risulterebbe ancora più complicata oggi di quanto non lo fosse nei decenni precedenti». Inefficaci le sanzioni, rischiose le politiche antagoniste nel solco della “trappola di Tucidide”. Rimane indispensabile per l’Occidente la curiosità per un modello di modernizzazione che esige la rivisitazione delle forme della governance mondiale.