Nelle ultime settimane tutti i media hanno dato grande risalto alla tragica situazione dei migranti bloccati in Bosnia. La vicenda di Lipa, questo campo che non si può neppure definire tale perché privo fin dall’inizio di acqua, luce e allacci fognari, ed abbandonato alla vigilia di Natale dall’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) dopo aver tentato inutilmente di convincere le autorità bosniache a trasferire altrove i migranti, ha sicuramente le caratteristiche di una catastrofe umanitaria ma la domanda che dobbiamo porci è: perché essa si è creata? Come può accadere che in un paese europeo (perché anche la Bosnia è Europa anche se non è ancora nella Ue) non si trovi una sistemazione provvisoria per meno di duemila persone? Chiariamo subito che in questa storia i fondi sono l’ultimo dei problemi. Per far fronte alla crisi nel dicembre 2020 la Ue ha stanziato 25 milioni di euro per la Bosnia, portando così a circa 90 milioni di euro gli stanziamenti assegnati al paese balcanico dal 2019 per la gestione dei flussi migratori. La facile conclusione che qualcuno potrebbe trarre è che la colpa ricade solo sul governo bosniaco; il quadro è invece molto più complesso e nasce dalle scelte che la Ue ha fatto nei Balcani negli ultimi anni.
La via bosniaca è divenuta un obbligato imbuto solo a fine 2017 dopo la definitiva operatività del muro ungherese, contestato più per dovere d’ufficio che per convinzione dalla Ue e la parallela chiusura attuata dalla Croazia verso la Serbia. A partire dall’estate 2018 l’Oim al quale viene affidata la gestione delle strutture per i migranti in Bosnia, apre in sequenza quattro centri di cosiddetta accoglienza temporanea (Cat) nel cantone di Una Sana e uno a Ušivak, vicino a Sarajevo. Alla fine del 2019 ne verrà aperto un altro a Blažuj, nel cantone di Sarajevo. Infine il campo di Lipa, nel 2020 quale struttura provvisoria per la gestione del Covid-19. A parte alcune strutture dedicate alle famiglie e ai minori che raggiungono standard minimi, ciò che viene riservato agli altri migranti sono luoghi di estremo degrado (in genere fabbriche dismesse e fatiscenti).
L’impostazione rimane pur nello scorrere del tempo del tutto emergenziale come se ci si trovasse di fronte a un numero incontenibile di arrivi (ma non è affatto così). Nelle strutture è sempre mancato ogni programma, anche minimo, di integrazione sociale ed è stata impedita una redistribuzione su strutture piccole nonché su normali case. Il sistema di accoglienza dei migranti è divenuto subito un mondo a sé che ha generato forti tensioni sociali in un Paese, la Bosnia, ancora profondamente lacerato al proprio interno, in preda alla corruzione ed immerso in una crisi economica e sociale di cui non si vede l’uscita. I sistematici e violenti respingimenti dalla Croazia hanno ostacolato l’uscita dei migranti che si sono quindi trovati ammassati loro malgrado nel cantone di Una-Sana, una delle aree più povere del paese.
In tal modo il fragile sistema dei campi non ha più retto e migliaia di persone non hanno avuto accesso ad alcuna accoglienza, neanche minima, durante tutto il triennio 2018-2020 e si sono accampati ovunque nei boschi e nelle case abbandonate. È giunta infine, puntuale, la spirale di violenza: a giugno 2019 il Comune di Bihac apre una tendopoli a pochi chilometri dal confine croato, dove un tempo sorgeva una discarica. È il “jungle camp” di Vučjak. Non è un campo ufficiale ma non né neppure una occupazione del tutto abusiva. È una combinazione, geniale e crudele, di entrambe le cose. Il (non)campo diviene presto un inferno senza gabinetti, acqua e luce in cui si ammassano oltre mille persone. Chi scrive ha visto con i suoi occhi la polizia di Bihac rastrellare per le strade della città i migranti, compresi i bambini soli, deporli nella ex discarica e sorvegliare che nessuno rientrasse verso la cittadina.
Solo ad inizio dicembre 2019, quasi un anno esatto prima della tragedia di Lipa, il campo di Vučjak viene sgomberato appena un attimo prima che si consumi l’ecatombe di centinaia di morti per stenti ed assideramento. Per i dannati di Vučjak fu trovata la soluzione di disperderli tra i nuovi campi attorno a Sarajevo. Per quelli di Lipa oggi non c’è nessuna soluzione. Di Vučjak in Italia quasi nessuno ha parlato un anno fa; oggi tutti, giustamente, parlano di Lipa ma pensando che si tratti di un fatto improvviso e in qualche modo inspiegabile. Non lo è affatto. Come ricorda Silvia Maraone nel Rapporto I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa a cura della rete “Rivolti ai Balcani” – la prima pubblicazione in italiano dalle finalità divulgative ma redatta con rigore scientifico che permette di comprendere il dramma della rotta balcanica – «La (non) gestione della situazione di Lipa è l’apice di una crisi politica più ampia e del fallimento delle politiche di decentralizzazione dell’Ue».
L’Unione europea sta attuando ovunque in modo ossessivo lo stesso tragico schema fatto di due pilastri: il primo è cercare di bloccare i migranti in paesi terzi, anche quando si tratta di rifugiati come lo sono la maggior parte di coloro che, fuggiti da Afghanistan, Iraq, Siria e altri paesi, sono bloccati nei Balcani. Questo pilastro si attua attraverso finanziamenti diretti ed indiretti, senza badare a spese e senza andare troppo per il sottile su chi riceve il denaro (e il relativo potere). Così ha fatto la Ue con la Turchia, il luogo da cui inizia la rotta balcanica, rafforzando il regime di Erdogan, così tenta di fare, disperatamente, con la Libia, e così fa con i paesi dell’area balcanica. La Ue non sembra affatto interessata a far crescere dei sistemi locali di asilo adeguati alla situazione dei diversi stati balcanici; farlo richiederebbe programmi di lunga durata compresa la ricollocazione dei migranti e un aiuto a realizzare in paesi che ancora non hanno una tradizione d’asilo programmi di protezione e inserimento graduali e sostenibili, ovvero tutto il contrario di ciò che è stato fatto.
Il secondo pilastro sono i respingimenti e a poco importa se essi sono in radicale contrasto con lo stesso diritto dell’Unione e con i discorsi ufficiali sui diritti umani. La Croazia cerca un posto tra i “grandi” della terra picchiando e torturando i migranti che cercano di valicare la nostra porta; di ciò non verrà punita bensì ricompensata. Con più eleganza e meno sangue, ma uguale logica, l’Italia fa la sua parte respingendo alla frontiera i richiedenti asilo. Gli “accordi di riammissione” con la vicina Slovenia che a sua volta respinge/riammette in Croazia non si applicano però ai richiedenti asilo e in nessun caso si possono respingere i richiedenti asilo alla frontiera. Lo ha riconosciuto, a denti stretti, l’uscente ministra Lamorgese rispondendo il 13 gennaio 2021 ad un question time presentato dall’on. Palazzotto. Bene se non fosse che le citate dichiarazioni sono l’esatto opposto di ciò che era stato affermato dal medesimo, forse un po’ confuso ministero, a fine luglio rispondendo all’interrogazione dell’on. Magi sui respingimenti dei richiedenti asilo.
Cosa è successo dunque in tutti questi mesi? Quanti richiedenti asilo sono stati dunque respinti dall’Italia e oggi magari sono nella neve di Lipa o altrove? Quanti, nel loro viaggio a ritroso hanno subito violenze e torture? (Stando alla percentuale media di migranti che nel percorso subiscono violenza, si può stimare non meno di 700 persone). Ma di questo tema è meglio non parlare: in fondo cos’è lo stato di Diritto se non un dettaglio per anime belle? Su Lipa si spegneranno molto presto i riflettori anche se nessuno dei suoi dannati troverà altra collocazione, questo è già chiaro. L’esercito bosniaco sta tirando su nuove tende e già c’è chi parla della nuova soluzione per Lipa: Lipa 2. Speriamo dunque che la buriana si calmi presto perché abbiamo bisogno di tornare a respingere, picchiare e torturare in santa pace.