Se si analizzano le fonti del diritto penale degli ultimi venti anni, lo stato dei Tribunali e delle carceri, si comprende come il sistema democratico italiano collida con la cultura della punizione espressa dalla Costituzione. La classe politica contrasta iniziative di tipo clemenziale, come amnistia e indulto, e depenalizzanti per ridurre le innumerevoli ipotesi di reato, mai praticate e a volte impraticabili, che costituiscono l’apparato punitivo. È difficile intuire la logica per cui, ad esempio, si abrogano le due ipotesi di delitto di trattamento illecito di dati personali per sostituirle con ben sette fattispecie, compresa quella dell’articolo 612-ter del codice penale. C’è una “finta” riduzione del quantitativo delle norme penali com’è accaduto con la depenalizzazione realizzata attraverso i decreti legislativi 7 e 8 del 2016. Si tratta di scelte legislative che sembrano enfatizzare gli aspetti repressivi, ma che, in realtà, si perdono nella palude della inoperatività.

L’apparente eliminazione di un reato finisce per dare vita a una diversa incolpazione in un diverso procedimento, amministrativo secondo i canoni della legge 689 del 1981, o civile, come nel caso dell’ingiuria depenalizzata nel 2016. In altri termini, fattispecie incriminatrici, decriminalizzazione o depenalizzazione spariscono dal settore dell’ordinamento penale per trasfigurarsi nell’ambito di un settore diverso. Queste scelte rappresentano un oggettivo alleggerimento dell’ordinamento nel suo complesso?

I due scenari rappresentati, clemenza e depenalizzazione, non sono praticabili perché non convenienti elettoralmente e, dunque, non in sintonia con le attuali scelte del Governo e del Parlamento. Tuttavia, in questa stagione di penalità a ogni costo compaiono scelte normative che, sfuggendo all’attenzione della classe politica, si pongono in aperta controtendenza con lo sventolato rigore punitivo. Gli effetti elusivi dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova e l’esclusione della punibilità per la “particolare tenuità del fatto” stabilita all’articolo 131-bis del codice penale si presentano come soluzioni antitetiche alle tesi coltivate per affermare la “certezza della pena”. La messa alla prova è la dimostrazione di un sistema che fa la faccia feroce ma cede il suo rigore attraverso una serie di tecnicalità elusive della responsabilità penale: una sorta di depenalizzazione ad personam.

L’articolo 131-bis, che esclude la punibilità, è invece l’espediente per cancellare dal mondo del processo fatti che, pur rivestendo una indiscutibile illiceità penale, si appalesano di quasi nullo allarme sociale: una sorta di decriminalizzazione di fatti per la loro minima rilevanza che, tuttavia, continuano ad essere reato e ad essere sottoposti al giudice del dibattimento. Tuttavia, continua a permanere nel nostro sistema la norma dell’articolo 626 che punisce i furti di minima entità e addirittura il raspollamento o la spigolatura dei fondi dopo la mietitura. Può essere considerata una norma attuale quella che punisce un soggetto che va a raccogliere le spighe di grano lasciate nei campi e non trebbiate? Occorre, dunque, ripristinare una penalità coerente con il canone di legalità sancito dalla Costituzione. Da qui il superamento dell’idea carcerocentrica del diritto penale.

Occorre, allora, pensare alla restrizione della libertà personale da declinare in forme prescrittive e temporaneamente inabilitative, ma espiate fuori dal contesto carcerario, nella consapevolezza che l’affidamento in prova al servizio sociale registra una recidiva su numeri bassissimi, diversamente da coloro che espiano la loro pena interamente in carcere che continua a mostrare punte di recidiva davvero allarmanti. Occorre allungare lo sguardo su soluzioni legislative che assicurino questa terna: l’accertamento della responsabilità, assistita da tutte le garanzie della persona; l’effettiva esecuzione della pena; la rieducazione del condannato attraverso esperienze pedagogico-dimostrative. Il primo capitolo da affrontare è quello delle misure alternative alla detenzione disciplinate dalla legge 354 del 1975, erroneamente qualificate come benefici penitenziari. In questo settore potrebbero essere resi più flessibili i presupposti sulla base dei quali scattano le misure alternative alla detenzione in carcere, primo fra tutti la misura della pena da espiare.

In secondo luogo, l’esistenza di un apparato giurisdizionale, quello della sorveglianza, ha frammentato il processo penale, separando illegittimamente e irragionevolmente la fase della cognizione da quella della esecuzione. Per cui l’impegno costituzionale alla rieducazione diventa appannaggio del Tribunale di sorveglianza e non, prima ancora, del giudice della cognizione. Andrebbe superato questo processo bifasico privo di una razionale base legale e riportare la fase dell’esecuzione nell’alveo operativo dello stesso giudice che scrutina la pena. Potrebbe essere a questo punto immaginata una soluzione che blocchi il procedimento in uno dei diversi gradi di giudizio in cui l’imputato accetta di espiare una pena in libertà ma governata da serie e adeguate prescrizioni quotidiane: un esempio del genere era già parte del patrimonio della legge italiana previsto al comma 5-bis dell’articolo 73 del testo unico sulla droga.

Altra ipotesi praticabile nella prospettiva delineata è l’ampliamento dell’operatività della sospensione condizionale della pena accompagnata dalla sottoposizione a una prova del condannato e non sospendere la pena senza alcuna ragione per poi dimenticarsene. Potrebbe essere immaginata la prova dei lavori di pubblica utilità, pur di lanciare un segnale conformativo alla collettività e non eludere ancora una volta una pena di misura cospicua quale quella fino ai due anni di detenzione. Sul piano processuale si potrebbe, ad esempio, incentivare il ricorso ai riti alternativi e comunque ampliare i margini di applicabilità di quelli esistenti. Anche in questo modo si eviterebbe di mettere di nuovo mano alla prescrizione la cui eliminazione è la violazione del principio di certezza del diritto e l’anticamera della barbarie normativa.