Ma non si uniscono i puntini? La crisi in Congo segue il meccanismo classico del conflitto dimenticato africano. Tuttavia, stavolta questo è un lusso che non possiamo permetterci. Per ragioni morali, s’intende. Ma non solo. Gli aggiornamenti dal terreno delle ultime ventiquattr’ore non sono di grande rilievo. Goma resta in mano ai ribelli del movimento M23, profughi in fuga e rimpallo delle responsabilità – governo congolese contro quello ruandese – più le Nazioni Unite che dice di smetterla. A poco meno di quattro anni dall’uccisione, proprio in Congo, del nostro ambasciatore, Luca Attanasio, e del suo carabiniere di scorsa, Vittorio Iacovacci, l’Africa subequatoriale riconquista la ribalta. Quella del Kivu, però, è un’offensiva che dura da tre anni. I disordini sono endemici e nessuna delle parti in causa – Repubblica Democratica del Congo (Rdc), Ruanda, ma anche Kenya e Onu – è mai riuscita a fornire una pacificazione accettabile.

Tuttavia, mai come oggi il mondo è stato in cerca di materie prime strategiche per la conversione della sua industria. Cobalto, coltan e germanio sono essenziale per la twin transaction in cui Usa, Cina e in parte anche Unione Europa sono di corsa. Le nuove tecnologie applicate alla lotta al cambiamento climatico e quelle protagoniste dell’iper-digitalizzazione richiedono una disponibilità di terre rare senza precedenti. In realtà, l’Africa subequatoriale è da sempre la fornitrice di commodity. È la storia del colonialismo, a dircelo. Legname, pietre preziose, metalli più o meno rare, ma anche uomini e donne da schiavizzare. La storia non è stata mai tenera nei confronti del continente africano. Oggi il livello di sfruttamento del territorio e delle sue risorse è rimasto quasi invariato per le ricedute in termini di crisi umanitarie. Dalla fine della Seconda guerra mondiale e la successiva decolonizzazione, i conflitti e i genocidi in Africa sono andati di pari passo con tentativi abortiti di innescare un processo di pacificazione e crescita economica diffuso. Per varie ragioni.

E se stavolta, invece, fosse quella buona per invertire la rotta? Gli osservatori sono scettici sul fatto che l’Europa possa acquisire la necessaria consapevolezza delle cose. Il Ruanda è militarmente forte e il regime di Paul Kagame è uno dei più longevi in Africa. Gode di una buona reputazione a livello internazionale e dispone di aiuti allo sviluppo che hanno portato a una crescita del Pil del 9,4% nel 2024. D’altra parte, le proteste nascono dall’accordo proprio che il Ruanda ha in essere con l’Unione europea. Una partnership sulle catene del valore delle commodity, in cui si legittima il ruolo del Ruanda come esportatore. L’attenzione degli analisti si concentra sulla miniera di Rubaya, ricca di coltan e situata nella Rdc, nella provincia del Nord Kivu, ma al confine proprio con il Ruanda. Da questi giacimenti, i ribelli del movimento M23 stanno attingendo e guadagnando in attività di contrabbando. Le cifre sono indicative: 110 tonnellate di coltan, per circa 800mila dollari al mese. Dimensioni, queste, che sui mercati valgono poco, ma che tornano utili a una milizia che ha tutto l’interesse a tenere acceso il conflitto. A questo si aggiunge la vicenda della causa intentata dall’Rdc a Apple Francia, accusandola di utilizzare coltan estratto illegalmente dal Paese, contribuendo così al finanziamento di gruppi armati e violazioni dei diritti umani. L’eventuale rallentamento delle risorse finanziarie a Kigali è plausibile solo sulla carta.

Diverso è il discorso di progetti di sviluppo. Il Piano Mattei, per esempio, di cui ieri ricorreva un anno esatto dal lancio, ha tutte le potenzialità per avviare una strada differente. Ci vuole del tempo, certo. Gli analisti infatti sono convinti che cambiare il modello di relazioni che un Paese europeo come l’Italia ha con l’Africa sia complesso e lungo. Tuttavia, di fronte una presenza cinese consolidata e alle sfide, tra Bruxelles e le singole cancellerie europee, l’Europa ha di fronte, forse è proprio il caso di “unire i puntini”. Della crisi del Kivu possiamo smettere di parlare anche in tempi brevi. Difficile però non risentire delle conseguenze di questo grave disinteresse.