La recensione
“Cara pace”, il romanzo famigliare di Lisa Ginzburg finalista del Premio Strega
Alla fine degli anni Ottanta, poco prima di essere colto da un infarto a 49 anni, il fotografo Luigi Ghirri visitò i luoghi in cui Giorgio Morandi aveva vissuto e lavorato per tutta la vita: la residenza estiva nel comune di Grizzana, mutato in Grizzana Morandi in onore del suo celebre dimorante, e l’atelier a Bologna, in via Fondazza 36, dove il pittore era solito allestire i teatri delle sue nature morte. Colpito non solo da quelle variazioni di tono e tecnica, nelle quali avrebbe detto di scorgere la visione di una «lampadina fioca», intravedendo addirittura il filo di tungsteno in quelle luci, Ghirri decise di eternare la natura delle cose evanescenti che si celavano in quello studio, realizzando gli scatti della superba serie intitolata Atelier Morandi. Il guscio di una conchiglia avvolta su sé stessa poggiata su un tavolo di legno, la sua ombra proiettata sullo sfondo giallo ocra, screziato da nervose pennellate grigiazzurre, costituisce una delle fotografie più intense delle sue ultime serie. Nella prospettiva dello sguardo su quel carapace, colto dalla fotografia tra le chiazze di colore, proprio nella sua essenza di «scrittura con la luce», passa, per intero, il filo della nostra evoluzione.
L’ultimo romanzo famigliare di Lisa Ginzburg ospita sulla copertina proprio quel guscio, accostato a un’invocazione come titolo: Cara pace. Un vocativo sussurrato piano dalla voce narrante della storia, il monologo interiore della rigorosa e impenetrabile Maddalena, che ricompone nostalgicamente i ricordi degli anni precedenti all’autoesilio parigino, vissuti a Roma, il ritmo di una vita cadenzato sulla rincorsa di sua sorella Nina, l’esuberante magnete dei suoi sentimenti. Figlie di una femminilità selvatica, di una madre adultera in terra straniera, e di un maschile annichilito dall’inquietudine delle droghe, un padre fotografo ai matrimoni e spettatore silenzioso della felicità altrui, le due sorelle cercano protezione e sicurezza descrivendo geografie respingenti, approdi costruiti sulla sola sottrazione dall’altra. Maddi e Nina, abbandonate in una casa su Villa Pamphili e cresciute come orfane – che ricordano le bambine solitarie nella casa di Sierichstrasse di Lunario del paradiso di Gianni Celati – sono due corde separate ma strette in un nodo.
Hanno imparato presto a scomporre i colossi parentali della loro infanzia mutilata non in madre-padre, bensì in uomo-donna, accordando loro risentimenti e comprensione per le proprie fragilità umane, i limiti di due solitudini che si sono illuse di potersi amare per non soccombere al vuoto. Una difficile eredità materna, che investe qui le due giovani donne nelle scelte scellerate di vita e di fuga, quello che si potrebbe definire un “nomadismo di radicamento”, tema caro all’autrice expat a Parigi già di Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo edizioni), e la sorellanza in un continuo processo di simbiosi, rispecchiamenti e doppi, sono i motivi più ricorrenti, insieme alla casa come architettura esistenziale, nella dozzina del Premio Strega di quest’anno – Cara pace (ed. Ponte alle Grazie) è infatti uno dei titoli candidati, insieme ai contigui Borgo Sud di Donatella di Pietrantonio e Splendi come vita, il romanzo ibrido tra prosa e poesia di Maria Grazia Calandrone.
La terza via, prospettata da Ginzburg, nell’opposizione manichea tra una sorella timida ma radicata, e una figlia del caos, degna erede di sua madre, sta nell’energica tutrice Mylène, accolta come deus ex machina e simulacro di una femminilità più materna del materno, che insegna loro la trasposizione della resistenza dello sport nella pratica quotidiana dell’indipendenza. Tuttavia, tra le due, la sola Maddi, la «sorella fortezza», sostenuta da una forte pulsione alla preservazione di sé e dall’anelito all’invulnerabilità, ha trovato un’apparente calma nella monotonia di una vita alto-borghese, spesa tra i salotti parigini e le lunghe passeggiate per il diciassettesimo arrondissement.
La tanto agognata «Cara pace» faticherà a giungere, se non nel facile gioco di parole – che Ginzburg ripete ossessivamente, sottovalutando spesso le capacità interpretative del lettore – del «carapace», una tranquillità blindata, crostacea, costruita intorno alle insicurezze di Maddalena, che sosta dentro di sé nell’attesa, come casa di se stessa. La prosa sobria e lo stile delicato dell’autrice si insidiano, con profonda riflessione, sulla frattura del guscio di una donna che, al pari della conchiglia dello studio di Morandi, si riconosce più nell’ombra che si specchia sul muro, che non nell’immagine stessa.
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