La polemica
Cara Valduga, su Franca Valeri ti sbagli!

Vale la pena fare qualche considerazione sul commento (polemico e, come si dice, fuori dal coro) di Patrizia Valduga a proposito di Franca Valeri, il giorno dopo la sua morte. Lo riassumo velocemente: «Franca Valeri e Alberto Sordi sono stati grandi, nel loro genere, ma il genere è piccolo». Quasi un aforisma, scandito con icastica perfezione, e non del tutto privo di fondamento. Però – attenzione! – potrebbe legittimamente essere usato contro chiunque, con fini svalutativi. Prendiamo proprio la Valduga: certamente è grande – per me una delle maggiori voci poetiche di oggi – ma all’interno di un “genere” (la poesia italiana contemporanea) che fatalmente resta piccolo. E anzi, per giocare un po’, si potebbe spingere all’estremo lo stesso ragionamento, e approdare a un relativismo assoluto, per certi aspetti paradossale. De Gasperi e Togliatti sono stati “grandi”? Certo, chi potrebbe affermare il contrario, ma all’interno di un “genere” (la Storia stessa) che ad esempio per Simone Weil (e in parte per Manzoni: nella Storia non si può che “far torto o patirlo”) era da considerarsi piccolo, rispetto a un agire caritatevole personale e rispetto alla vita segreta delle anime. Torniamo a Sordi e Valeri, tra i quali occorre pur fare una distinzione.
Per limitarci al cinema (dunque tralasciando la drammaturgia, le regie di prosa e di opera, i soggetti e le riduzioni della Valeri) Alberto Sordi è stato indubitabilmente più grande, sia dal punto di vista della qualità dei film che ha interpretato e sia come impatto sull’immaginario collettivo (di fronte al suo personaggio di arcitaliano in versione romanesca i “caratteri” portati in scena dalla Valeri restano confinati in un ambito ristretto, quasi solo televisivo). Però la sua comicità – straripante, irresistibile (personalmente lui e Totò mi fanno ridere più di qualsiasi altro!) – ha un grave limite, su cui una volta si soffermò Pasolini. È noto che Sordi non ha mai fatto ridere al di fuori dei confini nazionali. Attore immenso, non è stato però un comico universale. E anzi risulta intraducibile. Per quale ragione? Secondo Pasolini il suo infantilismo non produce mai bontà e candore, mentre tutti i grandi comici, da Chaplin e Keaton a Tati (potrei aggiungere Jerry Lewis), hanno mantenuto una relazione con questa dimensione della bontà legata al’infanzia: sono bambini, magari allampanati, ma bambini, disadattati e in urto con la società (con il suo “tacito galateo di ipocrisie”). In essi c’è una “profonda rivolta morale”, legata alla bontà e all’ingenuità dell’infanzia. In fondo anche la “cattiveria” di Groucho Marx ha bisogno, simmetricamente, della “bontà” di Harpo. Perciò sono universali: hanno fatto ridere tutto il mondo perché sono buoni. Non così Sordi, che ci fa ridere, a noi italiani, perché – cito sempre Pasolini – conosciamo il nostro pollo, «ridiamo vergognandoci di aver riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo». In questo senso si potrebbe concludere che il suo “genere” – quel tipo di commedia cinematografica all’italiana specchio fin troppo divertito e spesso complice dei vizi nazionali – è piccolo, letteralmente provinciale. Non così la Valeri, che pure, come ho detto, non ha fissato dei “caratteri” entrati così a fondo e prepotentemente nel senso comune dei nostri connazionali. Ho l’impressione che le sue maschere – Signorina Snob (che andando all’Opera raccomanda all’amica di vestire scuro, anche “nei gioielli”), Cesira la Manicure (che diffida dei meridionali), Sora Cecioni (che riduce il mondo alle sue chiacchiere con mammà) – lungi dall’essere mere caricature ci offrano il ritatto dell’eterna piccola borghesia italiana, ipocrita e velleitaria, gozzaniana e perbenista, solo nella sua versione moderna, e direi appena un attimo prima di incarognirsi sul serio. Le sue sono profezie del costume, come sottolinea in Franca. Un’incompresa di successo (Sem) Patrizia Zappa Mulas, di prossima uscita. Si possono leggere come una critica beffarda, di assoluta precisione antropologica, alla classe media squillante e incolta, cinica e sentimentale, sbracata e smaniosa di “distinguersi” (e di fingere di accedere a qualche salotto Verdurin), che venne alla ribalta negli anni della modernizzazione.
La differenza con i personaggi di Sordi? La perfidia e accuratezza ritrattistica è uguale, però qui non c’è mai autocompiacimento, richiesta più o meno tacita di complicità. Inoltre: sentiamo anche un alone di pietas, la presenza di una qualche cechoviana comprensione non tanto per i vizi stigmatizzati quanto per la loro umanissima radice. In questo senso il suo genere non è per niente piccolo, poiché viene niente meno che da Molière e dal genio comico italiano della commedia.
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