Nei prossimi cinque anni, in virtù delle risorse nazionali recentemente messe in campo per le infrastrutture penitenziarie, potremmo assistere ad una intensa attività edilizia per il miglioramento delle condizioni materiali delle nostre carceri, a detta, anche della Ministra Cartabia, indegne del nostro Paese e della nostra storia. Per la precisione si tratta della costruzione e miglioramento di padiglioni e spazi per strutture penitenziarie per adulti e minori per complessivi 132,9 milioni di euro.

Come recentemente ha informato il Parlamento la guardasigilli in carica, oltre alle risorse del Pnrr, per il triennio 2021-2023, abbiamo anche previsto circa 381 milioni per le indispensabili ristrutturazioni e l’ampliamento degli spazi. Si tratta di cifre interessanti ma non risolutive, per una serie di questioni. Basti pensare che nel nostro Paese, un posto detentivo costa – mediamente stimato per difetto – circa centomila euro e che per la sola manutenzione degli istituti in funzione occorrerebbero cinquanta milioni di euro ogni anno. Conosciamo a sufficienza la dimensione dello scenario in cui quei denari andranno a riversarsi e le dinamiche e le logiche alle quali dovranno soggiacere; per anni ne abbiamo trattato denunciandone i limiti. Per questo siamo pervasi da un sentimento che oscilla tra la curiosità di come le cose potranno andare e la quasi certezza dell’ennesima occasione perduta.

Utile pertanto ritornare sui limiti architettonici dell’esecuzione penale che ci appartengono e che ci hanno visti condannati in Europa, con l’intento di fornire consapevolezza per meglio comprendere le sorti dell’azione di resilienza, indotta dal Covid-19, anche nel carcerario, ma soprattutto delle risorse in campo. Il nostro patrimonio edilizio penitenziario è costituito da 191 istituti in funzione, insufficienti rispetto al fabbisogno ricettivo ed inadeguati architettonicamente per la funzione penale che il monito costituzionale indica. Nell’ultimo decennio, a partire dal Piano Carceri, il tentativo fatto di realizzare nuovi istituti è fallito; alcune realizzazioni sono al palo almeno per le consuete questioni procedurali e gli impicci burocratici. Va rilevato come nel nostro Paese non siano sufficienti dieci anni (per essere ottimisti) per realizzare e mettere in funzione un carcere di medie dimensioni (350 posti), a fronte di poco meno di due anni necessari in Francia per consegnare un carcere da 800 posti “chiavi in mano”.

La disumanità, insita nella natura stessa della condizione detentiva, è esasperata da sempre da soluzioni architettoniche afflittive, che nel tempo si sono stratificate e consolidate diventando norma, in palese conflitto con le istanze riabilitative della pena contemporanea. Ci accingiamo a destinare risorse in luoghi disumani perché architettonicamente irriguardosi dei bisogni materiali e immateriali degli individui, che in quei luoghi vivono e lavorano o che occasionalmente si ritrovano. Luoghi che impediscono ogni possibilità di esperienza che arricchisce e per questo distruttivi e inumani. Luoghi concepiti in assenza di ogni intendimento a ricercare soluzioni spaziali per migliorare rapporti e conflitti, a differenza di quanto e successo, a partire dagli ’80 del ‘900, negli USA e contestualmente in Europa.

Ovunque, e ancora di più in carcere, non è pensabile che l’individuo si evolva in un ambiente costruito monotono, uniforme, paralizzante nelle sue deprivazioni sensoriali ed emozionali, dove i muri anziché convalidare, rassicurare, incoraggiare, sostenere, favorire, al contrario invalidano, rendono incerti, scoraggiano, minano e reprimono. Il degrado materiale degli istituti in funzione, unitamente alla carenza di spazi vitali e trattamentali, rappresenta solo il tratto immediatamente percepibile di una condizione negativa che è la sommatoria di fattori che vanno oltre la dimensione fisica delle strutture. Una simile condizione non dipende unicamente dall’incuria o dalla reiterata carenza di risorse da destinare alla manutenzione degli istituti, così come l’assenza di qualità architettonica non dipende dall’aver trascurato i bisogni dell’utilizzatore in fase progettuale. È nelle dinamiche che nel nostro Paese appartengono alla produzione e alla gestione dell’edilizia penitenziaria che vanno ricercate le motivazioni originarie di un quadro negativo da troppo tempo in atto.

Limitandoci a quelle che appartengono a logiche non estranee alla specificità del tema, è utile acquisirne i lineamenti. Innanzitutto vanno considerate le posizioni assunte dei decisori politici, che negli anni si sono succeduti, in materia di innovazione della scena architettonica penitenziaria. Posizioni più inclini al virtuale che al reale, nella promessa ogni volta di scenari irrealizzabili e mai andando al nocciolo della questione. Rifarsi alla Costituzione legiferando non basta, bisogna conseguentemente concretamente agire. Strettamente connessi e conseguenti a questa circostanza sono i limiti culturali – in termini di assenza dei temi – che caratterizzano il mandato operativo affidato ai progettisti ministeriali, che per legge hanno il compito di elaborare – di fatto in regime di assoluta autarchia e monopolio – l’ideazione concettuale dell’edificio carcerario. Compito questo da sempre svolto alla luce dell’esclusivo dominio dell’utile e della norma. Recentemente la ministra della Giustizia Marta Cartabia si è espressa in termini lusinghieri riguardo i lavori della Commissione sull’architettura, che al suo arrivo al Ministero stava terminando il suo compito, con fecondi suggerimenti.

Ma, dunque, come operare nei prossimi cinque anni spendendo in maniera proficua il denaro messo a disposizione? Come intraprendere un percorso virtuoso sul piano culturale per il riscatto architettonico del carcere? Verrebbe da rispondere nel modo seguente: tenendo in debita considerazione il completamento dell’attuazione della norma vigente, agendo con ragionevolezza e lungimiranza, ovvero con i piedi ben saldi a terra ma con lo sguardo oltre le nuvole. In altri termini, innanzi tutto mettendo mano in maniera sistematica e tempestiva al risanamento e all’adeguamento degli istituti dal punto di vista igienico sanitario e funzionale, inoltre dotandoli, con le risorse spaziali a disposizione, di ambienti accoglienti per chi viene in visita e di ambienti per le attività trattamentali. Il tutto evitando opere edilizie di altra natura, non strettamente necessarie e non utilizzabili in tempi brevi. Circa la questione del superamento del sovraffollamento, non illudere “cavalcando la costruzione di nuove carceri”, che comunque in cinque anni non vedrebbero la luce.

Se nuove edificazioni devono esserci, concentrarsi allora sulla realizzazione degli otto nuovi padiglioni già programmati, intesi come strumento di decongestione degli istituti in cui saranno realizzati e non come disponibilità di nuovi posti per incrementare la popolazione detenuta. A riguardo è bene ricordare che la Commissione per l’architettura, citata dalla Ministra, ha fornito un progetto per l’edificazione degli otto padiglioni accennati, dei quali i requisiti e le prestazioni ambientali previste vanno nel senso auspicato. La crescita culturale architettonica per colmare il gap che ci separa dal carcere della Costituzione è altra faccenda.

Solo una forte volontà politica, protratta nel tempo e orientata ad affiancare sul tema dei valori dell’architettura, in maniera più determinata, i soggetti tecnico-ministeriali ai soggetti culturali competenti, potrebbe contribuire, nel corso degli anni, a far evolvere e ad attualizzare gli spazi della pena nel nostro Paese, dentro e fuori il “recinto”. Sempre ovviamente che vi sia la convinzione condivisa che la dimensione materiale degli spazi della pena (tradizionali e non), siano una risorsa di civiltà del nostro Paese, da affidare ai giovani di oggi e alle generazioni che verranno.