Carcere per diffamazione aggravata a mezzo stampa solo nei casi di eccezionale gravità. È quanto ha sancito la Corte costituzionale, che ieri ha esaminato le questioni sollevate dai tribunali di Salerno e di Bari sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista per la diffamazione a mezzo stampa, per contrasto, tra l’altro, con l’articolo 21 della Costituzione e con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le questioni sono tornate all’esame della Corte un anno dopo l’ordinanza del 2020 con cui aveva sollecitato il legislatore a una complessiva riforma della materia.

La sentenza con le motivazioni sarà depositata nelle prossime settimane, ma Palazzo della Consulta, nel frattempo, fa sapere che la Corte, preso atto del mancato intervento del legislatore, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa (la 47/1948) che fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa.

È stato invece ritenuto compatibile con la Costituzione l’articolo 595, terzo comma, del codice penale, che prevede, per le ordinarie ipotesi di diffamazione compiute a mezzo della stampa o di un’altra forma di pubblicità, la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa: quest’ultima norma consente infatti al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità. «Resta attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore – sottolinea la Consulta nel comunicato – in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento, che la Corte non ha gli strumenti per compiere, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione, già evidenziati nell’ordinanza 132.».

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