Torniamo a parlare – per l’ultima volta! – di fascismo. Al di là di anacronismi storici e di paure insensate di nuove marce su Roma il fascismo esiste, eccome! Solo che non va identificato con una parte politica, con una ideologia (o almeno: non solo con una parte politica). Credo che bisognerebbe rimeditare in proposito la riflessione di Carlo Levi, giellista e azionista, considerato dai comunisti “anarcoide e qualunquista” e dalla destra un “utile idiota dei comunisti”.

Già nei primi anni ’30 scriveva sulle pagine del giornale di “Giustizia e libertà” che occorrerebbe “combattere il fascismo dentro di noi”. Vi ricordate Gaber: “Mi fa paura non Berlusconi in sé ma Berlusconi in me!”. Nel Cristo si è fermato a Eboli parla di “un eterno fascismo italiano”, riecheggiando “l’autobiografia della nazione” gobettiana. Ma cosa dobbiamo intendere con questo concetto? Si tratta del fascismo come antropologia e mentalità, dunque trasversale. Proviamo ad approfondire questo concetto. Nello stesso libro Levi suggerisce la celebre dicotomia tra “luigini” (dal nome del podestà fascista di Aliano, il paesino lucano del confino) e “contadini”. Ora, i “contadini” sono per lui non soltanto i contadini, anzi possono esserlo anche gli industriali, gli operai, gli artigiani, i medici, i matematici, etc., insomma tutti “quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano”. Mentre i “luigini” – cioè i fascisti – sono “quelli che dipendono e comandano, e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano”. Ora, la mossa straordinaria di Carlo Levi, che pure combatté concretamente il fascismo storico (e dal regime venne arrestato e confinato), è quella di concludere che in ognuno di noi c’è una parte contadina e una parte luigina, tra loro in contrasto (così come negli anni Trenta ebbe a dire che occorre anzitutto sconfiggere il fascismo dentro di noi).

Solo un ricordo autobiografico in proposito, spero non del tutto abusivo. Nel ’68 il presidente Mao, che pure era stato responsabile di una modernizzazione forzata dell’economia cinese (negli anni ’50) che costò milioni di vittime tra i contadini, e poi della sciagurata Rivoluzione Culturale nei ’60 (con centinaia di migliaia di morti), scrisse un aureo libretto, credo fondamentale per la mia generazione: “Sulla contraddizione” (tra l’altro una leggenda metropolitana vuole che non avesse mai letto Marx ma che conoscesse la dialettica hegeliana!). Bene in quelle pagine si leggeva che in ogni rivoluzionario agiscono spinte controrivoluzionarie, e che dentro ognuno di noi comincia la battaglia politica. Qualche anno dopo la straordinaria rivoluzione femminista nel nostro paese si dovette ricordare di quella intuizione. Il critico Matteo Marchesini ha recentemente attaccato un mito caro a Carlo Levi, e dopo di lui a Elsa Morante e Pasolini. Il mito, per tutti loro confortevole, di una segreta parentela tra artisti e reietti, di una affinità tra i poeti e gli ultimi. Un mito fondato su una illusione e su una indebita proiezione personale. Levi si sentiva prossimo ai contadini lucani, Pasolini ai borgatari, la Morante agli analfabeti. Tutti e tre immaginano questa invisibile alleanza con soggetti sociali estranei alla Storia, depositari di una vitalità incorrotta e infantile, depositari di una verità premorale (feroci e innocenti, brutali e autentici), uniti insieme contro la classe media, contro una piccola borghesia amorfa, spenta, mediocre.

Già Franco Fortini volle prendere le difese nel 1964 di quella povera giornalista che intervista Pasolini, da lui definita una “maledetta cretina” nella poesia “Una disperata vitalità”. Confesso che anche a me venne voglia di parteggiare per la ragazza che in “Palombella rossa” intervista Nanni Moretti – la freelance di qualche squallida TV locale – e che solo per aver osato usare un termine come “trendy” viene da lui schiaffeggiata! Insomma: è ben altro il conformismo che bisognerebbe combattere! La critica di Marchesini coglie nel segno, però qui bisognerebbe distinguere tra Carlo Levi da una parte, e Pasolini e Morante dall’altra. Vorrei obiettargli che dentro l’opera di Carlo Levi si trovano gli stessi anticorpi che possono aiutarci a smontare quel mito. Come abbiamo visto la sottolineatura del dualismo sotteso alla persona – in ognuno c’è la parte contadina e quella luigina – lo protegge dalle mitologizzazioni estetizzanti di Pasolini e Morante, dal loro populismo aristocratico e dal loro malcelato disprezzo per la gente comune. Il conflitto avviene nella coscienza di ogni individuo. Certo, poi Levi identifica i “luigini” con la “sterminata, informe, ameboide piccola borghesia”, i politicanti, gli industriali assistiti dallo stato, i parassiti, i letterati dell’eterna Arcadia… Però a ben vedere queste due “civiltà” coesistono dentro la nostra interiorità. Perciò Levi non poteva consentire alla separazione manichea tra “uomini e no”.

Ma per chiarire il suo concetto di “eterno fascismo” ripassiamo quell’altra dicotomia, che incontriamo nel suo ultimo libro, il Quaderno a cancelli, scritto nel 1973 durante una convalescenza (a causa del diabete, e di una retinopatia, perse la vista per qualche mese). Ed è quella tra “diabetici” e “allergici”. Sentite come definisce, metaforicamente, i due tipi umani che corrispondono alle due patologie. Il “diabetico” si apre dolcemente e fraternamente al mondo, non ritiene che “un po’ di zucchero conti nell’armonia della natura” né che pensar male degli altri ci renda più sagaci, si fida del prossimo, crede a quello che si dice, non chiude le porte neanche di notte, vorrebbe abolire le frontiere (i “diabetici” hanno inventato il socialismo umanitario e anarchico, di ispirazione evangelica). “L’allergico” (ahinoi, la maggioranza) vive blindato, si difende continuamente da tutto, cerca sempre un colpevole, mobilita contro lo “straniero” un “immenso esercito immunitario”, è intollerante e paranoico, opera sempre contro qualcuno e contro l’altro. Vi ricorda qualcuno?