L'intervista
Carnevale Maffé: “La manovra Giorgetti-Meloni? Un compitino senza coraggio. Il risanamento in sette anni mossa sleale, peserà sul prossimo governo”
Liberale duro e puro, Carlo Alberto Carnevale Maffè è docente di Strategia alla Scuola di Direzione aziendale dell’Università Bocconi. Con diverse attività di docenza all’attivo, dalla Steinbeis University di Berlino, alla Columbia University e alla New York University, è membro del direttivo dell’ABI-Lab, Associazione Bancaria Italiana. Lo abbiamo incontrato per raccogliere la sua analisi sulla manovra.
Che giudizio dà della terza manovra Giorgetti-Meloni?
«Senza infamia e senza lode, ma soprattutto senza coraggio. È un compitino semi-obbligato dalla condizione delle finanze pubbliche e del debito pubblico, dall’ eredità di cui sono corresponsabili tutti i partiti che sono al governo oggi. Del disastro del 110%. Ed è erede di una situazione di indebitamento, con tassi di interesse aumentati che pesano notevomente su un percorso di risanamento detratto dal nuovo patto di stabilità e crescita, vincolato su sette anni».
Quei sette anni concordati con l’Europa.
«Sì. Su cui il governo poteva dare una indicazione. Tu scegli un piano di risanamento di sette anni, vincolando anche la prossima legislatura. Un gesto tatticamente comprensibile, ma non un atto di grande lealtà, stai lasciando un’ipoteca sulla prossima legislatura. Se hai un orizzonte di cinque anni, fai un piano su cinque anni. Confidando di tornare al governo con la stessa maggioranza».
Cosa manca?
«Un disegno coraggioso di intervento sulla struttura della spesa pubblica che viene ritoccata in direzione non sbagliata, perché c’è un intervento fiscale sul lavoro e sulle imprese che nel principio è giusto: ridurre il cuneo fiscale e ridurre il prelievo fiscale sulle imprese che investono sono due principi corretti. Ma la riduzione del carico fiscale sul lavoro è stata introdotta con livelli di complessità e di arbitrio sugli scaglioni che non hanno semplificato. Siamo partiti da una maggioranza della flat tax e siamo arrivati a un livello di complessità che non si è per niente ridotta. I cittadini non vedono il patto fiscale con lo Stato. E non lo vedono neanche le imprese, che a fronte del disboscamento di una serie di sussidi, che non posso che giudicare positivamente, la riduzione dell’Ires – che è necessaria livello del 15% e non del 20% – è stata sottoposta a condizioni arzigogolate, cervellotiche e dirigiste. Perché mai deve decidere il governo quale debba essere l’allocazione tra capitale e lavoro che deve fare l’impresa? Il 24% deve essere reinvestito? Ma perché non il 22%?»
Non riusciamo più, soprattutto, ad attrarre la grande impresa, il grande capitale. E questo è uno dei problemi… .
«Ma certo. Fate come l’Irlanda, che sa attirare la grande impresa. Altro che via argentina, scegliete la via irlandese. Aprite alle multinazionali, al capitale di ogni provenienza. Ma la strada irlandese da noi è preclusa da un pregiudizio ideologico che vede “l’Italia agli italiani”, il “Sovranismo finanziario”. Tutte cose antitetiche allo sviluppo libero della grande impresa, problemi prima culturali, e politici, e poi economici. Per fare entrare le grandi imprese, servono poi riforme sulle quali siamo indietro, a partire da quella della giustizia. Servirebbero tempi di risposta della giustizia a livello europeo, e una condizione fiscale e burocratica adatta a attirare. E poi come dicevo un pregiudizio ideologico. Addirittura adesso ci dicono che Unicredit sarebbe una ‘banca straniera’».
Lo sconto fiscale alle imprese però è una idea giusta.
«Sì, ma la risposta del governo è stata « Ok, alle nostre condizioni ». No, la riduzione dell’Ires andava fatta togliendo tutti i sussidi, abbassando l’Ires di tre o quattro punti e poi, faccia il mercato. Non l’impresa che deve sottostare ai vincoli del dirigismo centralista. E no all’idea che lo Stato nomini un commissario politico nei collegi sindacali delle grandi imprese che ricevono il sussidio. Sono per la riduzione dei sussidi e assoluta libertà delle imprese, logicamente dentro alla legge».
Manovra tutta in deficit con soli tagli lineari, stupisce che a farla sia un governo così solido, che avrebbe potuto davvero osare molto.
«Un governo così forte, relativamente anche agli altri governi europei, vista la poca crescita aveva tutta la possibilità di dare un segnale forte riducendo la spesa pubblica. Non lo ha fatto come avrebbe dovuto fare un governo di centrodestra, che si conferma fondamentalmente statalista e dirigista. Meno della sinistra, sì. Ma non al livello dei riformatori veri. Giorgetti ha fatto un’operazione prudente, equilibrata. Tanto è vero che la Commissione europea la nostra legge di bilancio l’ha approvata senza grosse osservazioni, e di questo va dato merito al governo. Il più grande merito di questo governo è quello di non aver fatto le stupidaggini che hanno caratterizzato le leggi di bilancio dei populisti nei governi precedenti. Populisti che sulle politiche dei bonus a pioggia hanno avuto il consenso di tutti i partiti dell’attuale maggioranza. Ora lo stanno negando, ma tutti erano per il superbonus. Gli unici due deputati che votarono contro erano di Più Europa. Meloni voterà contro per ragioni ideologiche ma era fondamentalmente d’accordo».
Lei torna su una lettura politica, c’è un peccato originale di questo governo, ed è nella sua marca ideologica ?
«Non è certo un governo di liberali puri. Quando si parla di sovranismo alimentare, di sovranità industriale, di cosa parlano ? Manca la lettura della fondamentale sfida che ha davanti il Paese. Ventuno mesi di calo della produzione industriale sono un segnale gravissimo».
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